Per la prima volta in assoluto un esemplare di scimmia rhesus è stato clonato con successo, impiantato nell’utero di una madre surrogata, sopravvivendo per oltre due anni. Un risultato incredibile a cui sono arrivati gli scienziati dell‘Accademia Cinese delle Scienze, che hanno poi pubblicato lo studio sulla rivista Nature Communications.
L’importanza dello studio
Il risultato ottenuto in Cina promette di rendere più efficace la clonazione dei primati, aprendo così la strada alla possibilità di ottenere riserve di cellule staminali per ottenere organi in miniatura (organoidi) con i quali studiare i meccanismi alla base dell’infertilità e di molte malattie che colpiscono gli esseri umani.
Come si è arrivati al risultato
Per arrivare ad un esemplare sano vissuto per oltre due anni, sono stati moltissimi gli esperimenti condotti dal team coordinato da Falong Lu, Zhen Liu e Qiang Sun usando la tecnica di trasferimento nucleare che nel 1997 aveva portato alla nascita della pecora Dolly, il primo clone di un mammifero. La tecnica consiste nel trasferire il nucleo di una cellula adulta, ossia la struttura della cellula che racchiude il Dna, all’interno di un ovocita privato del proprio nucleo. In questo modo la cellula viene indotta a regredire fino ad uno stadio primitivo al punto che se viene trasferita in utero è in grado di dare origine ad un embrione.
Proprio con questa tecnica, subito dopo la pecora Dolly, sono stati ottenuti i cloni di molte altre specie di mammiferi. Per quanto riguarda le scimmie però, e proprio in particolare i macachi rhesus, i risultati ottenuti sono stati sempre molto bassi tanto che nonostante i numerosi tentativi, fino ad ora un solo embrione era sopravvissuto alla nascita soltanto per poche ore.
Le problematiche riscontrate
Mettendo a confronto le caratteristiche genetiche degli embrioni di scimmia a uno stadio primitivo di sviluppo (blastocisti) ottenuti con la fecondazione in vitro e quelli ottenuti per clonazione, si è subito compreso che fosse lo sviluppo della placenta il punto debole che creava anomalie anche nello sviluppo degli embrioni clonati. Sia per la dimensione della placenta stessa, sia per trasmissione delle informazioni genetiche dell’embrione.
Per riuscire a superare questi ostacoli, gli scienziati hanno isolato il tessuto embrionale che dà origine all’individuo (chiamato massa cellulare interna) da quello che dà origine alla placenta (trofoblasto) e che non entra in gioco nella formazione dell’embrione. Hanno poi trasferito la massa cellulare interna del clone in un altro embrione, ottenuto con la tecnica della Icsi (che consiste nell’inserire un singolo spermatozoo in un ovocita maturo) e privato delle cellule che danno origine all’embrione.
In questo modo l’embrione si è trovato ad avere una placenta sana: “Utilizzando questo approccio, abbiamo ottenuto la nascita di un clone sano di scimmia rhesus sopravvissuta per oltre due anni“, hanno spiegato i ricercatori. “Nonostante questo risultato riguardi un solo clone di scimmia, la nuova tecnica – aggiungono – potrebbe rivelarsi vincente per poter clonare i primati in futuro“.
Il problema etico dalle parole del biologo italiano
“Il primo clone di un macaco rhesus nato sano e vissuto per oltre due anni è una tappa fondamentale della medicina rigenerativa – spiega il biologo dello sviluppo Carlo Alberto Redi, presidente del comitato etico della Fondazione Veronesi e membro dell’Accademia dei Lincei. Lo studioso ha inoltre sottolineato l’importanza di: “distinguere la tecnica dal prodotto della tecnica, anche perché nessuno nel nostro mondo può ragionevolmente pensare di usarla ai fine della clonazione umana“, tranquillizza il biologo.
“Questa tecnica è invece importante perché permette di avere ricadute benefiche nell’uomo e per questo è anche eticamente rilevante. I cloni di scimmia sono un modello importantissimo per la biologia e la medicina e, di conseguenza utilizzare la tecnica e non proibirla, come purtroppo accade in Italia – spiega – permetterebbe ricadute in molti ambiti scientifici: dalla comprensione dell’infertilità alla salvaguardia di animali in via di estinzione, alla comprensione di molte malattie mitocondriali“.
Lo sviluppo dei feti umani
Questo tipo di studio ha permesso di fare enormi passi avanti e di raccogliere dati importanti sul periodo dello sviluppo embrionale che prevede l’impianto: “Negli esseri umani ad esempio, oltre il 50% delle gravidanze naturali non avvengono a causa del mancato impianto dell’embrione in utero“.
Lo studio ha quindi dato un nuovo punto di vista su come procedere: “Si è compreso cioè che non funzionano nelle strutture extra-embrionali. Vale a dire – prosegue l’esperto – che non si tratta solo di genetica, ma di epigenetica: la chiave non è più la sequenza dei mattoncini del Dna, ma quello che nel corso dello sviluppo embrionale viene scritto sopra i mattoncini (ossia sostanze come gruppi metilici e acetilici) per regolare l’espressione dei geni nel tempo e nello spazio e ottenere, per esempio, cellule dell’osso piuttosto che del fegato“.
Per dirlo in maniera più chiara: “È come se i geni fossero note musicali, modulate da quel direttore d’orchestra che è l’ambiente nel senso più ampio del termine, da quello psico-fisico a quello psicologico“.