Il colmo per Greta Thunberg è finire nascosta, come si fa con la polvere sotto i tappeti, dai suoi stessi coetanei e, per sovrapprezzo, più ecologisti di lei.
Partiamo dai fatti che, sin da principio, corrono sul crinale del paradosso: nel marzo 2021, all’acme dell’infatuazione globale per la giovanissima paladina dell’ambiente, l’università britannica di Winchester decide di dedicarle una statua in bronzo. Ad altezza naturale, scala 1:1 (foto). Una roba da imperatore romano. Ed anche una celebrazione vagamente menagrama, visto che nell’occidente democratico le statue di personaggi celebri ancora in vita non sono così diffuse. Ma, non a caso, stiamo parlando di un periodo – non ancora terminato – di fondamentalismo ideologico nel nome del dio green. E lei, in quel momento, era la papessa indiscussa e indiscutibile di questa fede.
Dunque, per la non modica cifra di 24mila sterline, la raffigurazione dell’attivista svedese viene forgiata nel bronzo, come Marco Aurelio appunto, ma senza cavallo. Badate bene: non con la plastica raccolta negli oceani o con materiali riciclati, ma nella celebre lega della quale è composto il volto di molti dei quali hanno trasformato Greta in una rivoluzionaria. A dire il vero l’idea non piace quasi a nessuno, a partire dagli studenti dell’università che lamentano subito come quei soldi potevano essere spesi in un modo migliore: magari per combattere il cambiamento climatico? Insomma: chi di gretismo ferisce, di gretismo perisce.
L’accusa degli universitari nei confronti dell’ateneo è infatti la più classica delle critiche mosse dagli ultra ambientalisti: «greenwashing». Un termine anglosassone talmente orribile da essersi subito diffuso anche dalle nostre parti ed essere stato immediatamente recepito dai vocabolari. Il significato è un fuoco d’artificio di complottismo: «Strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo». Un capolavoro.
Ci troviamo di fronte a una matrioska infinita di paradossi: 1) un’università che celebra con una statua una ragazza diventata famosa per non essere andata a scuola per anni con la scusa delle proteste contro il cambiamento climatico; 2) gli studenti gretini che in nome del gretismo più puro vogliono rimuovere la scultura della medesima Greta e nel frattempo la vandalizzano: ultima degenerazione dell’ultima generazione; 3) l’ateneo che non sapendo più cosa fare di questa benedetta statua – non può certo buttarla via, ché qui non si spreca niente, e poi in che cosa la ricicli una Greta? – dopo tre anni di proteste decide di imboccare la strada più semplice: nascondere il prestigioso manufatto. Perché lasciarlo all’ingresso dell’istituto, alla mercé di chiunque voglia spernacchiarlo?
Così, lo scorso luglio, con la scusa di «un basamento poco stabile» la bronzea raffigurazione dell’ambientalista è scomparsa nel nulla, per poi riapparire qualche giorno fa nell’angolino di un cortile. Ed è una metafora luminescente non tanto della parabola di Greta, ma di quanto certi miti e certe false ideologie siano velocissimamente biodegradabili, anche se di bronzo.