Maschere, umorismo, follie. Uno, nessuno e mille doppi di “don” Luigi Pirandello

Maschere, umorismo, follie. Uno, nessuno e mille doppi di "don" Luigi Pirandello

Tutto inizia nel caos: «Io sono figlio del Caos», diceva Luigi Pirandello, e non allegoricamente, perché era nato a Girgenti, in contrada Càvusu, corruzione dialettale della parola greca Kaos. Che è anche il titolo del film dei fratelli Taviani tratto da alcune Novelle per un anno: ed ecco qui la locandina originale del 1984, appesa sulla prima parete. E tutto finisce nel caos: in linea con tutta la sua vita, il funerale di Pirandello, morto nel dicembre 1936 per una polmonite rimediata sul set di Cinecittà del film tratto da Il fu Mattia Pascal, si trasformò in una commedia degli equivoci, fra la volontà testamentaria di non avere cerimonie ufficiali (che irritò il Regime), la cremazione (che irritò la Chiesa), un movimentato viaggio dell’urna da Roma ad Agrigento e le ceneri sepolte, anni dopo, nel giardino della villa a Kaos, dove era nato. Un’epopea tragicomica cui Paolo Taviani dedicò nel 2022 il film Leonora addio, ed ecco lì il poster che occupa l’ultima parete.

In mezzo – fra i due caos – c’è tutta la vita, l’opera, la fama, le maschere, le follie, l’umorismo, l’adesione al fascismo, il Nobel (nel 1934, 90 anni fa), le finzioni e i capolavori di Luigi Pirandello, poeta, drammaturgo, romanziere ma soprattutto, altrimenti non lo si capirebbe fino in fondo, come insegnò il suo conterraneo Leonardo Sciascia, figlio fedele di una Sicilia madre e matrigna. Terra che pur vivendo in Germania, a Roma, sul Monte Cimino, non abbandonò mai.

Benvenuti alla mostra Pirandello. Lo scrittore e il suo doppio – l’inaugurazione è domani alla Kasa dei Libri a Milano, ed è aperta fino al 29 marzo – che in tre grandi sale e 200 pezzi fra prime edizioni, riviste, foto, locandine, programmi di sala, lettere autografe, specchi, giare e grandi sipari (l’allestimento è elegante e creativo) prova a ricostruire il labirinto-Pirandello, costituito da un corpus letterario vastissimo (43 titoli teatrali, centinaia di novelle, sette romanzi e poi poesie, saggi, articoli) e nel quale l’unica via d’uscita resta quella di perdervisi dentro. Solo così si può davvero tornare a leggere Pirandello e capire la portata della sua rivoluzione nel mondo del teatro. Che fosse un genio lo intuì perfettamente un altro genio, Albert Einstein, che nel 1925, alla prima a Berlino dei Sei personaggi in cerca d’autore, andò nel camerino dello scrittore per manifestargli la propria stima. Divennero amici e si rividero più volte negli anni successivi. E quando un giornalista, una volta, chiese a Pirandello: «Ella pensa, Maestro, di aver fatto nel teatro, ciò che Einstein ha fatto nella scienza?», il Maestro – conscio della forza delle loro innovazioni – rispose: «Perfettamente».

Perfetta nell’equilibrio tra dati biografici e bibliografici, divisa in tre sale-sezioni («Il teatro», «Il prosatore», «La fortuna all’estero») e curata da Andrea Kerbaker, il quale ha raccolto negli anni i singoli pezzi, tutti originali, la mostra racconta vite (al plurale) e opera (unica). Sempre intrecciate. Il peso che ebbe l’essere siciliano nella sua scrittura (e il rapporto con Sciascia che gli perdonò persino il suo fascismo), la vita agitata e poi il fallimento della zolfatara di famiglia, la malattia mentale della moglie, il successo esplosivo dopo i Sei personaggi in cerca d’autore, l’adesione al Regime nel ’24 (subito dopo il delitto Matteotti, ed è strano), l’innamoramento per Marta Abba… Su una parete, con i libri che sbucano da un sipario aperto, c’è tutta la sua produzione teatrale nell’edizione delle «Maschere nude» pubblicata prima da Bemporad negli anni ’20 e poi da Mondadori negli anni ’30. In mezzo alla sala del Teatro ecco le sagome in legno di sei personaggi che tengono in mano ognuno una edizione diversa del dramma, dal 1921 al 1927. E dentro un teatro di specchi ecco le varie edizioni del romanzo più noto di Pirandello, Il fu Mattia Pascal, che apparve per la prima volta in rivista, a puntate, sulla «Nuova Antologia», nel 1904; poi viene pubblicato da Treves, che lo stampa a partire dal 1910; e poi da Bemporad, e da Mondadori, e poi nelle traduzioni di mezzo mondo… C’è anche una copia del libro (anno 1934) dedicata di pugno dello scrittore a tale… Maria Pascal, una lettrice. E chissà chi era.

A proposito di curiosità. Ecco alcuni tra i pezzi più belli in mostra. Una copia della tesi di laurea originale, in lingua tedesca, stampata in pochissimi esemplari nel 1891 (dopo essersi allontanato dall’università di Roma per contrasti con alcuni professori, il giovane Pirandello va a Bonn, dove si diploma sul dialetto siciliano). Una copia molto particolare di Tutto il teatro in dialetto di Pirandello uscita da Bompiani nel 1993: è quella appartenuta a Paola Borboni, nata nel 1900, pirandelliana per tutta la vita (bel colpo, Kerbaker!). Il libricino Il gioco dei padri che Anna Maria Sciascia, figlia di Leonardo, scrisse sulla vita di Antonietta, moglie di Pirandello, consumata dalla pazzia, e di Lietta, la figlia inquieta. Una copia del saggio su L’umorismo (in odore di plagio…) che Pirandello scrisse nel 1908 e riscrisse nel 1920. Varie locandine di film ispirati alle sue opere (bellissima quella de Il turno girato nel 1981 con Vittorio Gassman, Laura Antonelli e Paolo Villaggio). E poi – una cosa che dice molto se non tutto di Pirandello – una copia della rivista Il Secolo Illustrato del 17 novembre 1934 che celebra l’assegnazione del Nobel. La foto in copertina è quella che un fotografo accorso davanti alla sua casa romana il giorno dell’annuncio del premio gli scattò, dopo avergli chiesto di posare seduto alla macchina per scrivere, fingendo di battere qualche cosa. Divertito, Pirandello si mise a schiacciare qualcosa sui tasti. Finiti i flash, un cronista si avvicinò al foglio lasciato dentro il rullo per sbirciare cosa Pirandello avesse scritto.

Aveva battuto una sola parola, ripetuta più volte. «Pagliacciate! Pagliacciate! Pagliacciate!».

Leave a comment

Your email address will not be published.