Questa volta, potrebbe essere arrivato il famoso passo oltre il limite per Selvaggia Lucarelli, che da qualche tempo sui social sta seguendo il filone del debunk delle operazioni benefiche. Le va dato il merito di aver dato il là alle indagini ufficiali su Chiara Ferragni e di aver messo alle corde numerosi “furbetti”. Ma ora che di mezzo c’è quello che sembra essere un suicidio, che le tempistiche collocano pericolosamente a ridosso di una “simil inchiesta” condotta dalla giornalista e dal suo compagno chef, forse sarebbe il caso di tacere.
Il caso è quella della presunta falsa recensione omofoba di un ristorante della provincia di Lodi, finita su tutti i giornali per la risposta pro-Lgbtq della proprietà. Questa storia viene “debunkata” o, come si dice in italiano, confutata da Lorenzo Biagiarelli, compagno di Lucarelli. Compagno che, indossando le improbabili vesti dell’Ispettore Gadget che se la crede fin troppo, ha anche chiamato la signora per chiederle conto di quella recensione, pubblicando sui suoi social il contenuto della chiamata. Il racconto del pregresso si ferma qui, perché ora non ha nemmeno più senso sapere se fosse vera o meno quella recensione. E sì, parliamo di un commento lasciato sotto la pagina Facebook di un ristorante di provincia con meno di 20 coperti, non di un caso di truffa o di qualche reato.
La signora, di cui non faremo il nome, viene trovata senza vita domenica sera. Parte l’attacco dei social alla coppia di “investigatori” improvvisati. Una reazione potente, incattivita tanto quanto lo sono sempre state quelle degli utenti fomentati dai post di Lucarelli nelle sue inchieste giornalistiche. Ne è la dimostrazione il ragazzino con la gamba maciullata da uno squalo in Australia, per il quale gli amici hanno aperto (si presume) in un buona fede una raccolta fondi volontaria senza dare troppe spiegazioni. A quell’età non ci si può immaginare di finire in un tritacarne mediatico per aver chiesto anche solo un euro per aiutare un amico e non aver pensato alle pezze di accompagnamento, ai giustificativi e simili.
Ma lei interviene, sventa la pericolosa truffa intentata e se ne compiace. Nel frattempo, il ragazzino già provato dall’esperienza, viene sommerso dagli insulti degli hater scatenati (indirettamente) dall’inchiesta. Lui grida al mondo la sua rabbia contro la giornalista come farebbe ogni giovane della sua età che si ritrova senza una gamba per una bravata e per di più sotto il tiro di un personaggio potente sui social. Ma lei è glaciale, ferma, pubblicamente non mostra la minima compassione quel dolore e rivendica il suo lavoro.
La ristoratrice non ha nemmeno avuto modo, forse tempo, forse voglia di gridare al mondo la sua rabbia per la gogna mediatica scatenata contro di lei per un’altra bravata probabilmente, un maccheronico tentativo di marketing finito male. Quel che impressiona in tutta questa vicenda è la totalmente mancanza di empatia da parte di Lucarelli, che non ha mai espresso il suo dispiacere per questa morte. Farlo non sarebbe certo stato un atto di autoaccusa ma avrebbe tolto parte di quel gelido cinismo all’agghiacciante tentativo di autoassoluzione, l’ennesima occasione di salire in cattedra e insegnare qualcosa. D’altronde, lei è quella che ha “debunkato” il New York Times servendosi di un blog filo-palestinese per avvalorare la sua teoria. Ed è lecita la domanda di chi, oggi, si chiede se la giornalista sarebbe stata così accorata nella difesa di chi ha scatenato il caso mediatico se quella persona non fosse stata il compagno.
La risposta è superflua e lo dimostra la storia. Ed è inutile che oggi sia l’uno che l’altra continuino a pontificare sui social rivendicando il diritto alla verità. Un diritto sacrosanto che però non può essere esercitato senza etica o morale. Quando si ha in mano un esercito di follower pronti a correre dietro a ogni polemica con una proprietà di linguaggio che non è quella giornalistica ma quella del comune cittadino, a volte anche un po’ rozzo, si deve sentire la responsabilità di quello che si sta facendo. Non perché si sia responsabili delle azioni altrui ma perché quelli potrebbero non capire quale sia il limite oltre il quale non bisogna andare. E se quel limite non lo riconosce nemmeno chi fa quel mestiere e, preso dalla foga di un caso andato bene, va a fare le pulci anche al ristorante di provincia a conduzione familiare, allora di che ci si stupisce. Se un giornalista, o uno che vorrebbe esserlo ma nel frattempo cuoce le uova in tv, non capisce che il problema non è quel che si fa ma sono i modi con i quali si fa, anche spiegarglielo ha poco senso. E poi si sa quel che si dice di chi, in ogni modo, tenta di prendersi la ragione.