“L’allarmante calma della campagna Biden”. Così ha titolato qualche settimana fa il New York Magazine riportando lo stato dell’inquietante tranquillità di una macchina politica che a questo punto della corsa per la Casa Bianca e con un candidato in forte affanno nei sondaggi dovrebbe già marciare a pieno regime. E non si tratta di una ricostruzione isolata. Mentre una parte del Paese è distratta dalla lotta per la nomination repubblicana che se non altro trasmette l’immagine di un partito in movimento, sul fronte opposto molti media ed insider parlano di una campagna democratica lenta e priva di energia non in grado di catturare l’attenzione come quella del tycoon.
È di pochi giorni fa l’indiscrezione del Washington Post sulle perplessità di Barack Obama sulla gestione della campagna per un secondo mandato di Biden. L’ex presidente avrebbe avvicinato lo stesso Potus per consigliargli di accettare l’aiuto degli esperti che hanno curato le sue precedenti competizioni politiche sottolineando l’urgenza di far dirigere l’organizzazione delle strategie elettorali da un unico centro autonomo lontano da Washington.
Secondo quanto riportato oggi dal New York Times i suggerimenti di Obama sarebbero però rimasti inascoltati. Infatti il vero centro nevralgico della macchina elettorale democratica rimane ancora fermo al 1600 di Pennsylvania Avenue invece che nel quartier generale a Wilmington nel Delaware. L’argomento sarebbe stato discusso da Biden con Mike Donilon, il suo stratega elettorale, ed il presidente avrebbe indicato come non intenda separarsi dal suo fidato consigliere, di origini irlandesi come il vecchio Joe, e dai restanti componenti del suo “cerchio magico”.
Il problema sarebbe più serio e di sostanza di quanto non appaia poiché gli assistenti di Biden svolgono funzioni incompatibili tra di loro sul piano operativo. E non solo. La situazione sarebbe diventata oggetto di lamentela da parte di membri del partito democratico i quali ritengono che la duplicazione di fatto delle sedi della campagna abbia contribuito a rallentare gli sforzi organizzativi necessari per affrontare una delle competizioni politiche più aspre della storia americana recente.
I ritardi sarebbero evidenti in particolare in alcuni Stati chiave – Pennsylvania, Wisconsin, Arizona, Nevada e Georgia – nei quali almeno sino a dicembre la squadra di Biden non aveva ancora cominciato ad assumere personale da destinare alla campagna. Un’altra critica avanzata poi dai finanziatori dem è la scarsa incisività e vigore degli attacchi diretti di Biden a Trump, favorito tra i candidati repubblicani. Il tycoon invece non perde occasione per provocare il presidente dichiarando ai suoi sostenitori che “nulla è migliorato” con il suo avversario al timone e dipingendo un Paese “fallito” e alla mercè di terroristi ed immigrati provenienti dai “manicomi”.
Gli uomini di Biden provano a minimizzare le preoccupazioni. “Ad ogni ciclo elettorale fonti anonime ed esperti si sfogano con i giornalisti. Ma non fatevi ingannare: questa campagna sta crescendo in maniera strategica ed aggressiva per conquistare ogni voto e vincere alle elezioni” afferma il portavoce Kevin Munoz. Dietro l’ostentata sicurezza sfoggiata in pubblico dai democratici vi sarebbe però un’inquietudine diffusa emersa durante un meeting svoltosi a Chicago tra pezzi grossi del partito dell’asinello convocato anche per ragionare su come portare a casa la rielezione del vecchio Joe. Chi si aspettava di sentire i dettagli di un piano strutturato per affondare le chance alle urne dei repubblicani è rimasto deluso nell’apprendere che qualsiasi tentativo messo in campo dal team del presidente non potrà impedire alle elezioni del 2024 di trasformarsi in una sfida incerta da combattere sino all’ultimo voto. Come nel 2020 e ancora prima nel 2016.