C’è un fatto essenziale che segna la resistenza di Israele in tempi impossibili e spiega che il Paese ce la farà: i ragazzi israeliani d’oggi, quelli fra i 18 e i 35 anni, sono molto più simili ai vecchi pionieri alla Ben Gurion e alla Jabotinsky della generazione dei professionisti moderni, ecologici, ideologici, woke come noi. Oggi in battaglie impossibili, a Khan Yunis o a Shlomi, giorno e notte, volontari negli ospedali, nell’agricoltura, nelle scuole, i cantanti che fra le cannonate vanno a Gaza a cantare, o le cuoche che impacchettano gavette di cous-cous, trovi ragazzini molto pratici, diretti, che amano la casa, la famiglia, che vogliono molti bambini e ripetono «non ho altro Paese che questo», sanno usare le armi in battaglia. E resistere al dolore in nome del loro futuro. Strana gente. Questi giovani saranno quelli che oltre i politici odierni compiranno un terremoto ideologico, senza destra e sinistra, oltre i religiosi e laici, perché hanno verificato che il Paese altrimenti rischia la vita. Abbandoneranno l’illusione che il Paese possa diventare la Svizzera, saranno quelli che porteranno una nuova e profonda comprensione della natura della guerra di Hamas, degli Hezbollah, dell’Iran con Israele, come descritta da Hossein Salami nel 1922: «Palestinesi e Hezbollah, passo passo, muoveranno insieme per liberare la Palestina in una guerra di terra, non coi missili». Il West Bank si muove su questo modello. Israele ha immaginato che condivisione e benessere portassero alla pace. Chi ha visto cos’è successo a Be’eri, chi ha ascoltato le testimonianze degli ostaggi ritornati, aggiunge molte tessere al mosaico della loro interpretazione della moralità ebraica: si deve anche sopravvivere, e mai più sopportare un’altra Shoah. Nel rispetto del valore della vita umana e delle regole internazionali, saranno quelli che sanno che se si vince lo si fa da soli; e ci si batte per gli ostaggi non per motivi di pietà, ma per orgoglio. Questo è il Medio Oriente; i cento giorni lo hanno rivelato definitivamente. La centesima giornata dal 7 di ottobre ha portato su di sé tutto il fardello di quello che oggi Israele deve affrontare: l’attacco omicida ai civili dal Libano, Hezbollah e palestinesi, sulle case e sulla gente, gli attacchi terroristi dal West Bank sul modello di quello di Gaza, recinti sfondati, mitra, asce, coltelli; l’Iran sullo sfondo di una guerra totale. E la lunga operazione di Gaza, carica di eroismo, di caduti, incerta sui tempi e soprattutto su come liberare 130 rapiti. Nel centesimo giorno, al nord e sul sud si vede la devastazione dei kibbutz, la desolazione dei paesi al confine col Libano; e il peso dell’elaborazione del lutto, del significato misterioso del male, dei caduti in battaglia e dei tunnel dove si torturano i rapiti. Ma non è un’angoscia simile a quella del passato, nemmeno per la ferita che brucia dell’ondata di antisemitismo nel mondo, «from the river to the sea». Qui, basta guardarsi intorno, osservare i ragazzi, e si vede che sta nascendo un nuovo israeliano.