Napoleone non ci avrebbe mai rinunciato. Mentre lo incoronavano Re d’Italia tuonò tra le navate del Duomo di Milano «Dio me l’ha data, guai a chi la tocca». Era il 26 maggio 1805 e se la calcò in testa da solo: non che avesse bisogno di un cerchio ferreo per incorniciare le sue gesta e il suo ego, ma riceverla gli piacque parecchio. Si sentiva a suo agio, malgrado la statura, con quel pesante simbolo in bilico sulla fronte. Oggi la maggior parte dei nuovi regnanti decide di rinunciarci. In Danimarca si usa incoronarsi «scoronati» ma Frederik X ha già scelto di essere un sovrano borghese (musica e arte moderna, scuole pubbliche per i figli…). E si sa che quando Carlo d’Inghilterra metterà fine alla sua tradiva parentesi regnante per lasciare il posto al figlio William, anche lui opterà per un regno senza corona. Impegnativa, anacronistica, scomoda, deleteria per la cervicale, secondo alcuni imbarazzante («difficile indossarla senza risultare ridicoli») è l’emblema della monarchia eppure è la prima cosa della quale ora decidono di disfarsi. Non sta nello zaino e non dona ai selfie. Quindi tocca alleggerire, togliere, dismettere. Persino nei regni più antichi del mondo serpeggia l’esigenza richiesta a qualunque azienda che abbia la velleità di sopravvivere: «svecchiare». Meno dame di compagnia, più influencer, meno sigilli, più twitt, meno ermellino, più H&M. Per continuare a essere Re tocca farsi cadere la corona. Anche se a furia di avvicinarsi ai sudditi, i sudditi non avranno più niente da sognare. Perché ciò che hanno sempre chiesto ai Reali è di non essere reali. Per poterli pensare inaccessibili e ontologicamente diversi dai comuni mortali. I sudditi, quelli orgogliosi di definirsi tali, vogliono continuare a credere che il sangue che scorre nelle vene dei loro sovrani è davvero blu. E vogliono continuare a vederli con una corona in testa che, con buona pace di Federico di Prussia, non è solo un cappello che lascia passare la pioggia.