L’impero di Roma è caduto ma la sua aquila vola alta

L'impero di Roma è caduto ma la sua aquila vola alta

Mi rendo conto che, quando questo mio articoletto sarà sotto gli occhi dei lettori, il libro di Aldo Cazzullo Quando eravamo i padroni del mondo. Roma: l’Impero infinito (HarperCollins, pagg. 288, euro 19), di cui tratto nelle righe seguenti, è già stato tra le mani di molti tra loro. Scopro l’acqua calda: quest’opera è stata per mesi in testa alle classifiche. A chi l’ha acquistato o avuto in dono, e a quanti se lo sono perso, rimettendoci parecchio – ma non è tardi per rimediare sollevandosi l’animo dopo la noia delle festività -, confido le ragioni del conforto che la lettura e successiva ruminazione di quelle pagine mi hanno apportato.

Il volume è stato a ragione paragonato, per freschezza di lingua e capacità divulgativa, alla Storia di Roma che Indro Montanelli dette alle stampe, con enorme successo di pubblico e scandalo degli accademici, nel 1957. Fu un caso editoriale clamoroso. Io ho estratto dalla libreria l’edizione economica Rizzoli del 1968, giunta alla ventiduesima ristampa, al prezzo di Lire 1600. Ne ho riletti, anzi bevuti, alcuni capitoli. C’è una diversità tra queste opere sul medesimo tema. Montanelli liberò dalla paraffina della retorica le umane vicende di personaggi ridotti a monumenti. Lì estrasse dai sepolcri in cui li aveva infilati come mummie la cultura impomatata dei parrucconi. Di Indro si percepisce il disincanto divertito e amaro che gli attraversava i polpastrelli mentre, ad esempio, rivelava la diarrea che colpì Ottaviano Augusto prima della battaglia contro Bruto e Cassio mettendo a rischio la vittoria e con essa i destini dell’umanità. Vicende come questa erano censurate nei sussidiari elementari e nei compendi liceali. (Cazzullo attribuisce peraltro il medesimo dissesto intestinale a Giulio Cesare che si inimicò i senatori essendo costretto a starsene seduto mancando loro di rispetto). E però si percepisce in Montanelli – pur scrivendo quei testi a puntate per la popolarissima Domenica del Corriere mentre l’Italia faceva balzi favolosi verso il benessere di massa – un pessimismo radicale sulla tempra degli italiani e della sua classe dirigente. In nessun modo riteneva possibile che da gesta antiche potesse scaturire qualsivoglia riscatto presente o futuro.

Cazzullo fa un altro lavoro perché ha una strana qualità. Non inventa speranze fasulle, né argomenta a proposito di nascoste superiorità della stirpe italica lasciateci dai progenitori con marchio SPQR. No, egli constata che pur avendo cercato in ogni modo di dimenticarci e cancellare il latino, quasi vergognandocene per tuffarci in un americanese da quattro soldi, c’è una forza dell’Impero di Roma tale da aver segnato nel profondo ogni civiltà nazionale e regionale in tutti i continenti e in tutti i tempi. Essa è rintracciabile non solo e non tanto nelle vicende della sua storia, ma nei racconti divergenti al quanto che ne fanno gli storici coevi. Scrive Cazzullo a proposito di Tito Livio e di quel che scrive: «Storie inventate, non false». Quasi una forza ineluttabile, legata al fato. E proprio perché non è frutto di volontà ma ci è capitato in casa, sarebbe totalmente suicida lasciare che questo pozzo di petrolio sia succhiato dai forestieri senza neppure pagarci le royalty. Sfruttiamolo. È un impasto inestricabile tra la lingua, il latino, e la «pietas». Forse non è perduto.

La domanda sulla misteriosa causa di questo dominio mondiale che non ha paragoni ci riguarda. Cazzullo ne trova traccia nella poesia di Virgilio. Nell’idea di «pietas» incarnata nella figura fondativa del Pio Enea, per cui la felicità del singolo non conta nulla rispetto all’interesse della patria, fino ad abbandonare e tradire Didone. Ma poi ecco che anche Enea si dimostra poco Pio e agli inferi rincorre invano Didone che lo sdegna. Non è la perfezione che fa Roma infinita. Sono contraddittori i Romani, alti e bassi nella morale. Così è Giulio Cesare, il più grande di tutti (e Cazzullo lo paragona e lo vede allo stesso livello, ma un po’ più in alto, di Alessandro il Macedone, Carlo Magno e Napoleone Bonaparte). Esprime in maniera moltiplicata per mille la tipicità dei concittadini. Constata l’autore: «Eppure qualcosa di particolare dovevano averlo, questi abitanti di una cittadina come tante che divennero padroni del mondo conosciuto senza un re, senza una dinastia, senza un casata dominante».

Il segno sta nella «pietas», certo. Ma di più nella lingua. Il latino. Esso è la chiave, la cifra, il segreto di ogni civiltà che crede di emanciparsi da quella romana, ma ne è occupata. Cazzullo elenca citazioni su citazioni che documentano la prevalenza ancora attualissima di questa lingua, che non è un semplice suono, una convenzione, ma è capace di dire, quasi far vedere con le lettere dell’alfabeto (23 quelle latine) la profondità e l’ampiezza, la capacità di scorgere l’infinito e di cascare nella meschinità degli uomini (e delle donne).

Insomma, si tratta di ritrovare il latino, se vogliamo ricominciare a educare le nuove generazioni (e rieducare le vecchie). Di ricominciare a proporlo, insieme all’inglese, sin dall’asilo. È roba nostra, più grande di noi, ma per questo utilissima a coltivare una piccola speranza per il futuro, avendo dato eccezionale prova di sé dovunque abbia messo i suoi alati e callosi piedi.

P.S. Mi piace segnalare il capitolo dedicato all’imperatore Adriano dove si racconta come dal suo latino («animula vagula blandula») sia germogliato quello che ritengo uno dei due o tre capolavori assoluti della letteratura del Novecento: Le Memorie di Adriano. Marguerite Yourcenar lo concepì passeggiando con i genitori, a 21 anni, tra le rovine gloriose della villa di Adriano a Tivoli. Dovremmo passeggiare anche noi tra le Rosae-rosarum-rosis, prima declinazione.

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