«Perché il mio giudice mi ha dimenticato?». Un anno di attesa per un bambino che ne ha solo otto è un tempo infinito. Ne sanno qualcosa i piccoli ospiti delle Comunità Residenziali dell’Associazione Caf, ma non solo. Eppure per avere un «decreto di uscita» dalle comunità ci sono voluti anche tre anni. Perché? Qualche settimana fa Milena Gabanelli ha messo il Tribunale dei Minori sotto la lente di ingrandimento. Dovrebbero esserci 18 giudici, ce ne sono 13. Sono 12.662 i fascicoli pendenti. Ogni giudice ne ha 974 sul tavolo e ogni anno ne arrivano 562 nuovi. Dietro ogni fascicolo una storia. Come quella (che racconta) di due fratellini Claudia e Armando, inseriti in comunità perché i genitori sono tossicodipendenti. E qui sono rimasti un tempo esagerato: 5 mesi prima che i Servizi sociali passassero la segnalazione al Tribunale, altri 6 prima che i genitori iniziassero il percorso di disintossicazione e infine ancora 15 prima di rendersi conto che quel percorso non funzionava: 780 giorni, in totale. E 780 notti. Così i bambini che potevano essere dati in affido a un famiglia sono stati costretti a restare in comunità per un tempo troppo lungo. È l’incastro a volte imperfetto tra Servizi sociali e Tribunale dei minori (e viceversa). Ma qui non è burocrazia. Che mondo è quello in cui (come è successo) si può far «sparire» la vita di una bambina, finita in chissà quale polveroso meandro insieme al suo fascicolo (che non si trovava più) e per questo costretta a rimanere in comunità per 4 anni? In teoria sarebbe semplice. Quando i bambini sono affidati dal giudice ai Servizi sociali e dai Servizi alla comunità, gli assistenti inviano periodicamente al giudice relazioni di aggiornamento sui casi seguiti, integrati dai vari operatori coinvolti. Da una parte il percorso di bambini e dall’altra parte quello dei genitori. Alla fine devono incrociarsi. Se, ad esempio, il problema è la tossicodipendenza, viene valutato via via come e se procede la disintossicazione, se c’è margine di recuperabilità. Se funziona, è previsto il rientro a casa. Se invece i genitori non aderiscono ai percorsi prescritti nel decreto originario emesso dal Tribunale dei Minori con l’allontanamento, viene valutata l’alternativa per i bambini che nel frattempo, invece hanno fatto il loro percorso in comunità e sono pronti per l’affido o addirittura l’adozione. Ma lì qualche volta il meccanismo si inceppa. Per mesi che a volte diventano anni. È successo, ad esempio, che un giudice sia andato in pensione e i suoi casi hanno tardato ad essere assegnati. Oppure che qualcuno ai Servizi sociali non abbia inviato un fascicolo: anche gli assistenti a Milano devono seguire ognuno decine e decine di fascicoli, storie, bambini, adolescenti, vite che rischiano di spezzarsi definitivamente dentro quel delicato ingranaggio che si inceppa. Quello che oggi, pare aiutare grazie alla nuova Legge Cartabia, è l’istituzione obbligatoria del «curatore speciale», un avvocato che tutela gli interessi del minore. Perché chi lavora con i bambini sa che il tempo in comunità a un certo punto deve finire. E se non è possibile tornare a casa, l’affido, cioè l’inserimento temporaneo in un’altra famiglia, è il secondo necessario passo avanti. Ma, su questa pratica c’è ancor poca cultura. Spesso è confuso con l’adozione, invece oggi è prevista per single, coppie di fatto, uomini e donne di ogni età, anche part time, o solo nel week end. Ma questa è un’altra storia.