C’era un inflitrato in papillon a Los Angeles, per la cerimonia dei Golden Globes. Ed era il sindaco di Roma Roberto Gualtieri, forse il politico con la faccia più «facciosa» della Repubblica (intesa come istituzione e non come giornale), che molti prima del party hollywoodiano giuravano di non aver mai visto sorridere. Ma nella missione californiana eccolo a trentadue denti in distopici scatti con Maryl Streep, con William Dafoe, con Dua Lipa. Immaginiamo il momento in cui le star, avvezze alle molestie di anonimi ammiratori in cerca di autografi e selfie, hanno visto arrivare questo omino placido che chiedeva loro di mettersi in poca con lui. Qualcuno per educazione gli avrà chiesto chi fosse, e alla risposta «the mayor of Rome» avrà pensato agli eccessi a cui può condurre la mitomania.
Gualtieri, con quella faccia un po’ così che abbiamo noi quando arriviamo a Hollywood, in realtà non era l’imbucato speciale al party in cui si celebravano i migliori prodotti del cinema e della televisione, una specie di «oscarino» due mesi prima (ma forse Gualtieri agli Oscar era davvero troppo); era lì, fanno sapere dal Campidoglio, con Gian Marco Sandri di Penske Media Corporation, che pubblica la rivista The Hollywood Reporter Rome (diretta peraltro da Concita De Gregorio) per stringere relazioni utili a «creare un ponte tra Roma e Los Angeles» che potrebbe rivelarsi fruttuoso per l’industria cinematografica italiana e quindi anche per la città di Roma, che ne è la capitale. Ma le espressioni di Gualtieri, che del grande schermo è appassionatissimo, erano più quelle di un groupie fuori età che dell’amministratore in viaggio di affari. Lui è il sindaco più «chi-era-costui» della storia recente di Roma, dopo l’arruffona Virginia Raggi, il marziano Ignazio Marino, l’arcigno Gianni Alemanno, l’ecumenico Walter Veltroni, il visionario Francesco Rutelli, e qualcuno si ostina a vedere in questo approccio da travet delle Frattocchie un punto di forza, come il grande burattinaio dei democratici romani Goffredo Bettini, che così ieri ha difeso l’escursione losangelina del sindaco dalle critiche di chi l’ha trovata inopportuna e perfino goffa: «Si possono dire tante cose su Gualtieri. Non stimarlo, oppure stimarlo, com’è il caso del sottoscritto, però sostenere che sia un vanesio perditempo che segue l’effimero è davvero paradossale». Segue agiografia: «Ha la seriosità dello storico, dello studioso, del dirigente antico della sinistra. Nelle situazioni mondane, che deve affrontare in virtù del suo ruolo, è timido, riservato, silenzioso. Studia i dossier, persino troppo, con la meticolosità analitica dello scienziato; spesso di notte. Ha un senso della responsabilità, del dovere e delle istituzioni talmente forte da apparire talvolta rigido e, appunto, pedante». Insomma l’elogio della mediocrità.
Però, insomma, a un simile culo di pietra, a questo secchione istituzionale, si chiederebbe infine solo di risolvere almeno un po’ i problemi della città eterna piuttosto che far sfilare Roma in ciabatte sul red carpet. Insediato da due anni e mezzo, e quindi a metà della sua «sindacatura», il giudizio su di lui è per lo più negativo, anche a sinistra. Gli si contesta il fatto che nelle due emergenze maggiori della città, la gestione dei rifiuti e la mobilità, nulla sia migliorato rispetto al disastro della Raggi, anche se è stato messo in cantiere il contestato termovalorizzatore che comunque libererà Roma dalla «monnezza» chissà quando. Sugli altri tavoli, la scomparsa dei taxi, lo stadio della Roma ancora lontano, i conti che fanno acqua da tutte le parti, l’umiliante sconfitta nella corsa all’Expo 2030, Gualtieri si sta comportando come il migliore sindaco non protagonista. Vincesse almeno questo premio, forse sarebbe Maryl Streep a chiedergli un selfie e a sorridere scattandolo.