Nella pioggia di libri che hanno segnato il centenario della nascita di Maria Callas, occorre ricordarne uno edito nel 2017 e ora ripubblicato e ampliato, che si distingue per nobile misura di tono e contenuti, il saggio di Franco Onorati, dedicato a Le stagioni romane di Maria Callas (Edilazio, pagg. 63, euro 13). Nella Capitale la scaligera Callas fu assai presente per un decennio (1948-58), cantandovi Wagner (Kundry e Isotta) e in seguito i tragici ruoli-feticcio (Norma, Medea, Lucia, Traviata), non senza stupire quando apparve sublime anche nel ruolo buffo della Fiorilla di Rossini. Oggi, giorno della prima alla Scala di Milano della Medea di Luigi Cherubini, opera che la Callas rese immortale, è istruttivo leggere quante castronerie e distinguo la critica capitolina affibbiò al soprano greco. Non pochi seguono la strada del suo stroncatore per progetto, il critico del Tempo Guido Pannain, insistente sulle asprezze, sui suoni gravi «sordi», sulla pronuncia «offuscata»: chi torce il naso all’eccesso di «portamenti»; chi alle disuguaglianze vocali, chi impartisce consigli non richiesti («procuri di temperare la gesticolazione e di abbandonarsi meno a talune esagerazioni»). Contro i critici musicali ci fu una levata di scudi di letterati: il Sommo Anglista Mario Praz, il classicista Ettore Paratore e il poeta Giorgio Vigolo, che ha lasciato una definizione indelebile di quanto la voce della Callas cavava dalla parte di Medea: «qualcosa di stranamente magico è nella sua voce, una specie di alchimia dei registri () nel personaggio di Medea certe asprezze conferiscono il belluino guizzo dell’erinni».