Orfano dall’età di due anni e cresciuto dalla madre con altri cinque fratelli, William Lai, che Pechino ha epitetato piantagrane, è un predestinato. Dal minuscolo villaggio minerario di Wanli, arroccato nell’estremo nord dell’isola, il 64enne medico ha scalato posizioni con costanza. Vicepresidente di Taiwan, membro dello Yuan legislativo dal 1999 al 2010, sindaco di Tainan dal 2010 al 2017, per poi assumere l’incarico di Premier dal 2017 al 2019.
Suo padre, minatore, morì in un incidente minerario: Lai cresce senza complessi, si diploma per poi iscriversi all’università con profitto. Dopo gli studi in medicina arricchiti da un master ad Harvard, inizia a lavorare come nefrologo, per poi ricoprire una carica pubblica come primo cittadino della città meridionale di Tainan, borgo che ha dato i natali anche ad uno dei top manager mondiali come il fondatore di Nvidia, Jensen Huang. Una svolta.
La sua parabola all’interno del Partito democratico progressista si è caratterizzata per un’impostazione molto pragmatica e filo occidentale: da sempre scettico nei confronti della Cina e con un passato a sostegno dell’indipendenza, ha iniziato a fare politica negli anni ottanta quando l’isola aveva assaporato per la prima volta il gusto della libertà. Erano i mesi in cui il regime al potere con il partito nazionalista Kuomintang aveva abolito la legge marziale aprendo il gioco ad altri partiti: così il Partito Democratico Progressista fu fondato attorno ad attivisti per i diritti umani e Lai ne fece subito parte.
Pechino lo ha cerchiato in rosso, perché figura sorda rispetto alle sirene del potere di Xi e dei suoi predecessori: la pace non ha prezzo, ha ripetuto più volte Lai, anche quando un’imponente esercitazione cinese aveva fatto temere per una possibile invasione. Nel 2017 si descriveva come un «operaio pragmatico per l’indipendenza di Taiwan».
Le sue parole sulla Cina sono miele per l’occidente: «Taiwan spera di essere amica della Cina, noi non vogliamo essere nemici.
Daremmo il benvenuto al presidente cinese Xi Jinping a Taiwan e gli prepareremmo prelibatezze taiwanesi da provare». Al pari delle posizioni sull’Ucraina: nell’ufficio del ministro degli Esteri di Taiwan Joseph Wu troneggia una bandiera ucraina e con Lai da sempre condivide la tesi che l’invasione russa ha rappresentato un monito anche per Taiwan.
Nello scorso agosto il governo ha deciso di incrementare i fondi per la difesa portandoli a un record di 19,1 miliardi di dollari, pari al 2,6% del Pil, compresi i 400 missili anticarro javelin statunitensi. Poi c’è stato il varo tre mesi fa del primo sottomarino sviluppato a livello nazionale. Lai ritiene che se la Cina dovesse lanciare un’invasione, il governo taiwanese dovrà essere in grado di «salvaguardare il Paese». Ma le convinzioni in politica estera di Lai non riguardano solo lo scomodo vicino, bensì una più generale strategia di sviluppo che si rapporti in maniera multilaterale con il mondo globalizzato. Secondo il vincitore delle elezioni ogni investimento taiwanese all’estero e ogni investimento estero in patria aumenteranno progressivamente la sicurezza dell’isola. Lo dimostra la decisione di alcune realtà top come Foxconn e Tsmc di aprire nuove sedi in India, Stati Uniti e Francia mentre colossi mondiali dei chip come Nvidia immaginano di gettare presto un ponte commerciale e industriale con Taiwan.
Il motivo? L’isola è la sedicesima economia commerciale più grande del mondo, con uno scambio di 907 miliardi di dollari che produce il 90% dei chip semiconduttori del mondo. Non solo pezzi decisivi praticamente in ogni settore della modernità, ma soprattutto alla base dell’intelligenza artificiale. Jolly che Lai vuole giocare in chiave globale. Con buona pace di Xi.