«La nostra intelligence ne era al corrente e il governo era stato informato dagli alleati, ma qualsiasi ipotesi di partecipazione all’intervento anglo-americano era costituzionalmente impensabile senza un voto del Parlamento». Così una fonte de Il Giornale a Palazzo Chigi spiega un’astensione italiana dall’intervento che alcuni media hanno provocatoriamente definito «rifiuto». In serata arriva la nota ufficiale di Palazzo Chigi: «L’Italia condanna con fermezza i ripetuti attacchi degli Houthi a danno di navi mercantili nel Mar Rosso e conferma il proprio deciso sostegno al diritto di libera e sicura navigazione, in linea con le norme Internazionali.
A fronte del comportamento inaccettabile degli Houthi, l’Italia sostiene le operazioni dei Paesi alleati, che hanno il diritto di difendere le proprie imbarcazioni, nell’interesse dei flussi commerciali globali e dell’assistenza umanitari». In serata il vicepremier e ministro degli Esteri Tajani, oltre a condannare di nuovo gli attacchi degli Houthi alle navi mercantili, ha ricordato che «per partecipare ad un’azione di guerra serve l’autorizzazione del Parlamento». Che il nostro esecutivo considerasse più saggio evitare una partecipazione diretta alle operazioni contro gli Houthi lo si sapeva fin da Natale. Risale ad allora la decisione di inserire le fregate «Virginio Fasan» e «Federico Martinengo» presenti nel Mar Rosso, all’interno di Atlantide, anziché in «Prosperity Guardian» l’operazione a guida Usa per bloccare i raid Houthi. Il nostro Paese avrebbe però ottime ragioni per partecipare alla difesa delle navi mercantili che attraversano i 32 chilometri dello Stretto di Bab el -Mandeb. Da lì e poi per Suez, passa il 40 per cento del naviglio commerciale su cui si muovono container, petrolio e gas liquido diretti in Italia. Una percentuale superiore rispetto al 30% del resto dell’Europa.
Per questo i primi a soffrire per la nuova crisi sono i nostri porti. Oltre 18 compagnie di navigazione, tra cui Msc e Maersk evitano Suez per il più lungo e costoso periplo dell’Africa. Il ritorno alla rotta del Capo di Buona Speranza spinge però i mercantili ad evitare Gibilterra e il Mediterraneo per proseguire direttamente verso il nord Europa. Il cambio di rotta rischia di affossare i porti di Trieste e Genova dove si scaricano le merci arrivate da Suez che proseguono verso nord lungo la linea ferroviaria. Alla crisi dei porti si aggiunge la pressione inflazionistica. Il periplo africano comporta due settimane in più di navigazione con aumenti del costo di carburante che toccano i 900mila euro a tratta. Chi evita il periplo dell’Africa sfidando le milizie houthi fa i conti anche con rincari assicurativi pari al 400/500%. Aumenti da aggiungere a quelli delle agenzie di sicurezza che garantiscono scorta e difesa armata delle navi.
Con queste variabili il costo del trasporto da Shanghai a Genova di un container da 40 piedi aumenta del 114 per cento. Già ieri i prezzi di petrolio e gas registravano già aumenti medi del 2% per cento. Nonostante questi rischi l’Ue reagisce, ancora una volta, con tempi e misure inadeguati. Ieri il Servizio di Azione Esterna Ue (Eeas) ha proposto il dislocamento di «tre cacciatorpediniere o fregate antiaeree con capacità multi-missione» per «un anno». L’insieme dei 27 paesi dispiegherà insomma una sola nave in più rispetto alle due già messe a disposizione dal nostro Paese. La missione si baserebbe su Agenor, un’operazione a guida francese composta da nove Paesi europei (Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia, Paesi Bassi, Norvegia e Portogallo). Ma a far accapponare la pelle sono i tempi visto che il via libera all’operazione dovrà attendere il Consiglio Ue di febbraio. Per la burocrazia Ue neppure la guerra è un emergenza. E la prima a farne le spese è, come sempre, l’Italia.