“L’arte digitale? Non è solo la bolla degli Nft”

"L'arte digitale? Non è solo la bolla degli Nft"

Sono trascorsi quasi cento anni da quando il filosofo Walter Benjamin decretò la fine dell’aura dell’opera d’arte, la cui autenticità è sacrificata sull’altare dei mezzi di riproducibilità tecnica come il cinema o la fotografia. Chissà cos’avrebbe pensato dell’arte oggi nell’epoca degli NFT, acronimo di «Non-Fungible Token», certificati di proprietà di opere digitali che un paio d’anni fa vennero presentati sul mercato globale come la rivoluzione del collezionismo del nuovo millennio. Una rivoluzione su cui volle mettere un indelebile sigillo la casa d’aste Christie’s che l’11 marzo del 2021 battè l’opera digitale «Everydays, the first 5000 days» dell’artista Mike Winkelmann, in arte Beeple, alla cifra astronomica di 69 milioni di dollari. Dall’euforia di quell’anno, che fece balzare il settore degli NFT a un valore record di 28 miliardi di dollari per volume di scambi in un solo mese, sembra passato un secolo e oggi quei collezionisti raccolgono i cocci di un eldorado andato in frantumi con il crollo delle criptovalute, a cui i certificati sono indissolubilmente legati. La morale è che nell’ultimo biennio – come emerge da una recente analisi di DappGambl – le criptotransazioni di opere d’arte digitali hanno subito un crollo del 97 per cento, con il risultato che il 79 per cento delle collezioni resta invenduto e solo il 5 per cento degli NFT ha oggi un reale valore di mercato.

Tutta una bufala? Le grandi case d’asta, dopo i fuochi d’artificio di due anni fa (oltre al record di «Beeple» con Christie’s, è sopraggiunta Sotheby’s che a giugno del 2021 ha battuto per la cifra record pari a 11,8 milioni di dollari un’immagine digitale della serie CryptoPunk) si trincerano adesso in un diplomatico silenzio, lasciando ai loro uffici di comunicazione messaggi laconici come «ci dispiace, ma c’è silenzio stampa» (Sotheby’s), oppure «al momento la Casa è impegnata con altri generi di aste» (Christie’s).

E le gallerie? Così come le case d’asta, i maggiori mercanti avevano immediatamente fiutato il business entrando a far parte della cripto-community. Dalla Peace Gallery di New York alla britannica Unit London, alcune tra le più importanti gallerie di tendenza avevano lanciato piattaforme NFT, e così anche la regina delle fiere Art Basel che nel dicembre del 2021 debuttò a Miami con un’esibizione di Nft in collaborazione con la valuta digitale Tezos. A dare man forte alla cripto-corazzata sono scese in campo anche star dell’arte contemporanea come Damien Hirst (quello dello squalo da 12 milioni di dollari, per intenderci) che ha immediatamente lanciato sul mercato un progetto chiamato «The Currency», una collezione di 10 mila NFT che corrisponde a 10 mila opere uniche fisiche dell’artista, registrando in pochi mesi transazioni per 70 milioni di dollari.

La bolla digitale scoppiò nell’aprile del 2022, in concomitanza con il crollo delle criptovalute. «Il segnale, come spesso accade, è arrivato proprio dalle case d’asta che hanno improvvisamente smesso di offrire in vendita Nft perché non avrebbero avuto compratori – sottolinea l’analista Giacomo Nicolella Maschietti, giornalista esperto di arte digitale – e anche le gallerie che avevano esposto alle fiere artisti in formato NFT, come la famosa Naghel Draxler tedesca che aveva promosso ad Art Basel uno stand interamente digitale, hanno convertito nuovamente la proposta in dipinti tradizionali». Le ragioni del flop, che ha lasciato con il cosiddetto cerino in mano 23 milioni di collezionisti in tutto il mondo, risiedono soprattutto nella deregulation del mercato delle criptovalute che ha favorito una speculazione massiccia e anche il riciclaggio di denaro in monete virtuali, defluito comodamente in beni intangibili come gli NFT che, lo ripetiamo, costituiscono un certificato di proprietà registrato sulla blockchain e legato ad una copia di un’opera digitale. Non è un caso, del resto, che la maggioranza di questi collezionisti non abbia in realtà alcun interesse artistico ma faccia parte esclusivamente della comunità di investitori in criptovalute. «Il problema principale – precisa Nicolella Maschietti – è nella decentralizzazione del dominio internet che, se da una parte elimina i costi delle commissioni intermedie, dall’altra non garantisce alcuna tutela sugli hackeraggi contro i quali cui è impossibile rivalersi legalmente. Molti collezionisti – continua – ma anche artisti e gallerie, hanno perso montagne di soldi con furti dei portafogli online, senza contare un aspetto fondamentale: l’NFT non tutela il contenuto, perchè è un certificato di provenienza e proprietà di un bene digitale, ma non contiene il bene. Per l’arte, è come acquistare un dipinto in una galleria, portare a casa il certificato di autenticità e dimenticare il quadro: un paradosso, se si pensa che il collezionismo si basa dalla notte dei tempi sul concetto di unicità, cosa che gli NFT non garantiscono perché le immagini delle opere restano disponibili online gratuitamente per tutti».

Nel metaverso dell’arte c’è anche però chi ritiene ingeneroso demonizzare la creatività digitale a causa delle speculazioni sugli Nft. Ne è convinta Serena Tabacchi, direttrice e co-fondatrice del MoCDA, Museo d’Arte Contemporanea Digitale nato a Londra nel 2019, nonchè curatrice di importanti mostre di arte digitale a Palazzo Strozzi di Firenze e a Palazzo Cipolla a Roma. «L’arte digitale – ci dice – ha un valore intrinseco in quanto opera d’arte, e non dobbiamo associare il movimento stesso della cryptoart con le influenze speculative degli NFT. Molte opere certificate tramite tecnologia blockchain trovano tuttora un grande interesse di mercato, confermando che l’arte è avulsa dalle speculazioni quando il progetto e l’interesse del pubblico vengono confermati delle istituzioni e dal mercato: non dimentichiamoci che l’artista turco Refik Anadol, pioniere nella ricerca algoritmica su AI, è stato recentemente acquisito dalla collezione permanente del MoMA di New York».

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