Un giorno davanti al campetto di Tor di Quinto sfila una processione di auto blu. Sono già lì che sgomitano seguendo il pallone, quando qualcuno dai cancelli richiama l’attenzione del mister. “Tommà! Tommà! Vien qua!”. Maestrelli sbuffa per quell’interruzione, ma comunque si avvicina. “Che c’è?”. Glielo spiegano subito. C’è che il figlio del Presidente della Repubblica Giovanni Leone vorrebbe tirare due calci. Il mister sgrana gli occhi, poi dirime in fretta la questione, mettendo tutti d’accordo. In fondo è la sua dote migliore. “Va bene, ma quelli lì stanno fuori”, dice riferendosi alla scorta. Poi prende da parte il ragazzino, gracile ed emozionato. “Senti, gioca pure, divertiti, ma non esagerare. Quando ricevi palla, passala subito, è meglio. Fidati“.
L’imberbe lo marca Giuseppe Wilson. Non esattamente uno che si lascia intenerire. Anzi, è il libero con licenza di randellare più temuto d’Italia. Leone junior però ha l’incoscienza dei giovani addosso. Prende palla, lo punta, lo salta netto. Gli altri ridono. D’Amico è piegato in due, come anche Re Cecconi. “Ridategli palla”, grugnisce Wilson. Il giovane lo punta di nuovo, ma stavolta il difensore gli molla un calcione che lo solleva di mezzo metro da terra. Quando uscirà dal campo, il figlio del Presidente abbasserà i calzettoni per scoprire stinchi e polpacci viola.
Fotografia appropriata di quella Lazio lì. Quella dello scudetto del 1974. Quella che non risparmiava nessuno, fosse anche un pontefice o un Re. A mezzo secolo dall’impresa un documentario, “Grande e Maledetta”, si infila tra le intercapedini del più irruento tra gli spogliatoi. E svela attraverso interviste inedite come Maestrelli riuscisse comunque a domare quel circo di belve inferocite.
L’aveva presa in B due anni prima, riportandola subito su. Alla prima stagione di nuovo ai piani nobili, terzo posto. Roba che nemmeno al cinema. Ma quel che stava per succedere, nella stagione 1973/74, avrebbe lacerato ogni aspettativa. In porta Maestrelli aveva voluto Pulici, che giocava in serie B, nel Novara, ed era stato il portiere più battuto del campionato. Poi, sostanzialmente, c’erano soltanto due difensori veri: il citato Wilson, che agiva da libero e contrastava chiunque gli capitasse a tiro, e Oddi, anche lui odiatore seriale dei fronzoli. I due terzini marciavano a piede invertito, confondendo gli avversari: i titolari erano Martini e Petrelli. In mezzo Frustalupi dirigeva il gioco con acume e lanci chirurgici, protetto ai lati da quella quercia di Re Cecconi e da Nanni. Davanti Garlaschelli e D’Amico supportavano un bomber perennemente assetato, Giorgio Chinaglia.
Il titolo l’avevano lambito un anno prima, giocandosela fino all’ultimo istante. Ma c’erano una serie di problemi che non lasciavano in dote percezioni positive. Specie perché lo spogliatoio era spaccato in due fazioni – c’era proprio una riga di gesso tirata nel mezzo – e Chinaglia voleva sempre vincere. A Tor di Quinto si tiravano brutalmente alle caviglie, come se sempre ci fosse da regolare un conto irrisolto. L’unica era correre sempre, per scansare le botte. Le risse deflagravano però anche fuori dal campo. Il più esuberante era sempre Chinaglia. Una volta scavalcò la recinzione e stampò un destro in faccia ad un tifoso che lo criticava. Un’altra, si prese con un romanista al Jackie O’, lo storico locale della Roma festaiola, quello dove la Lazio avrebbe celebrato il suo inatteso titolo. Ovunque erano pronti ad accedere uno scontro.
Poi c’erano le armi. Arricchiti e annoiati, i giocatori avevano fatto a gara a chi possedeva quella più grossa. Aveva vinto Chinaglia, al solito, presentandosi in ritiro con un fucile Winchester. Martini racconta che a volte, in albergo, per non alzarsi dal letto spengevano la luce a colpi di rivoltella. Una banda si selvaggi. Che però rispondeva al richiamo di un capo, amato all’esaperazione. Anzi, venerato.
“Giochiamo per Maestrelli“, dicevano i protagonisti di quella surreale galoppata. “In conclusione possiamo dire che è un gran signore”, aggiungevano dopo una serie di simpatiche interviste in bus. Il mister aveva una ricetta tutta sua. Lasciava che quelle belve si sfogassero, che assecondassero i loro istinti tribali, quindi rimetteva tutti in riga. La pozione magica ingurgitata prima di ogni partita li faceva assomigliare ad una squadra, anche se poi tra loro si menavano. Dopo una partenza convincente non si sarebbero fermati più. Vincevano di rabbia e di sentimento per il loro vate, perché lui li difendeva a spada sguainata. Durante una potente contestazione, un giorno, Maestrelli si fece aprire i cancelli della gradinata e andò a parlare per mezz’ora con i tifosi. Quando tornò indietro cantavano tutti “Forza Lazio alè”.
Quel rigore di Chinaglia che regola il Foggia all’Olimpico è l’apogeo di quell’impertinente viaggio. Dopo il fischio finale Maestrelli se ne sta con la testa china, in panchina, per qualche secondo. Vuole godersi il lato più intenso della gioia. Il sollievo del domatore dopo che la tigre è saltata dritta nel cerchio.