Gli eurofalchi pretendono più austerity

Gli eurofalchi pretendono più austerity

La congiuntura economica nel 2024 sarà ancora caratterizzata da una profonda incertezza. E, proprio per la mancanza di visibilità sulla probabile evoluzione di parametri fondamentali come Pil e inflazione, il Bollettino Bce di ieri ha ribadito che le prospettive per la crescita «restano orientate al ribasso e l’espansione economica potrebbe risultare inferiore se gli effetti della politica monetaria si rivelassero più forti delle attese». Allo stesso modo, il taglio dei tassi non sarà anticipato e le decisioni «assicureranno che siano fissati su livelli sufficientemente restrittivi finché sarà necessario».

Eppure, in questa terra incognita dove potrebbero ruggire i leoni della recessioni c’è chi mantiene la fede nella propria stella polare: l’austerity. È il caso del vicepresidente della Commissione Ue, il falco lettone Valdis Dombrovskis, che ieri ha sentenziato che l’esecutivo europeo intende raccomandare «al Consiglio l’apertura delle procedure per disavanzo eccessivo nel giugno 2024». Quando Dombrovskis parla in questo modo è chiaro il riferimento ai membri gold del Club Med, ossia i Paesi ad alto debito come Italia, Spagna e Francia. «Dobbiamo portare le finanze pubbliche di nuovo in pista preservando la sostenibilità e dando spazio agli investimenti e alle riforme», ha sottolineato nel corso di un’audizione alla commissione Affari economici dell’Europarlamento. E nei corridoi di Bruxelles le parole del vicepresidente suonano ridondanti. «Non c’è una particolare differenza con o senza nuove regole del Patto di stabilità», hanno dichiarato fonti di Palazzo Berlaymont, lasciando intendere che le correzioni vanno effettuate comunque, quello che cambierebbe è solo la tempistica del piano di rientro che con la riforma può allungarsi a un orizzonte settennale.

Indipendentemente dalla messa a terra dell’intesa sulla riforma del Patto di Stabilità, bisogna comunque assicurarsi che le trattorie di deficit e debito delle nazioni «cicala» vengano poste su una traiettoria discendente in modo tale che recuperino da se stesse le risorse per far fronte a eventuali shock senza pietire aiuti dai partner Ue. Insomma, a Bruxelles interessa poco che la produzione industriale italiana a novembre sia calata del 3,1% tendenziale segnando flessioni in tutti i comparti. E interessa ancor meno che negli Usa a dicembre l’inflazione sia risalita al 3,4% (quella core è calata al 4% ai minimi dal 2021). Non è un caso che le principali Borse mondiali ieri siano andate in territorio negativo. Male Milano (-0,66%), ancor peggio Londra (-0,98%) e Francoforte (-0,86%), mentre Parigi ha fatto un po’ meglio (-0,52%). A poco meno di due ore dalla chiusura il Dow Jones cedeva lo 0,4% e il Nasdaq lo 0,66 per cento.

Il motivo è presto spiegato. Sulla nostra sponda dell’Atlantico il cieco rigore ha convinto gli operatori che non si devierà almeno per il primo semestre dall’attuale livello dei tassi di riferimento che la Bce ha fissato al 4,5%. Sull’altra sponda si è avuta la definitiva conferma che la risalita dei prezzi indurrà la Fed a non toccare nulla fino all’estate. La riunione del Fomc di fine mese sarà solo l’occasione per qualche giro di tavolo. Gli Stati Uniti, però, hanno un vantaggio sull’Europa. A Washington il presidente Biden è preoccupato (anche per motivi elettorali), a Bruxelles Dombrovskis è serenamente fedele ai propri dogmi.

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