Così la sinistra moralista è diventata reazionaria

Così la sinistra moralista è diventata reazionaria

L’unico «mondo al contrario» lo sta descrivendo chi rifiuta di guardare quello dritto, ordinario: e quindi oggi, senza seguito nelle masse la famosa gente ha arbitrariamente deciso di scambiare tra loro due vecchi slogan, «Il nuovo che avanza» contro «Il vecchio che resiste». Ma qual è il nuovo che avanza, oggi? E qual è, soprattutto, il vecchio che resiste?

Per capirlo bastava leggere i giornali di ieri, o ascoltare le parole di un’opposizione che finge di non sapere che sta impersonando il ruolo dei conservatori, dei reazionari, o, ancora, basta ascoltare le parole di qualche residuale voce della magistratura e fingere davvero che la rappresenti. Sono tutti indietro di trent’anni, mentre il mondo si è rovesciato.

I QUOTIDIANI, TRENT’ANNI FA

Nel febbraio 1993 c’era un pugno di quotidiani che in accordo tra loro titolarono «Colpo di spugna» per un provvedimento sulla Giustizia (Decreto Conso) e riuscirono a farlo abortire, complice l’apparizione televisiva di un gruppo di pubblici ministeri nonché la codardia istituzionale di un presidente della Repubblica; quei giornali, in altre parole, erano in grado di accordarsi tra loro telefonandosi la sera, come hanno raccontato giornalisti ancora in attività e far cancellare un Decreto votato dal Parlamento sovrano, e insomma: erano in grado di orientare realmente l’opinione pubblica, facendosi inseguire dai notiziari televisivi. Era il nuovo che avanzava, nelle loro poi fallimentari intenzioni.

I QUOTIDIANI, OGGI

Trent’anni dopo, a proposito dell’acclamata abolizione del reato di abuso d’ufficio, gli stessi quotidiani ieri titolavano «Colpo di spugna» (esempi: prima pagina di Repubblica di ieri, pagina 2 della Stampa di ieri) e però oggi non succede un accidente, non orientano gli elettori, piangono semmai i lettori (spariti) mentre i notiziari televisivi badano agli ascolti e si focalizzano su altro. Non pare il caso – per non infierire sulla categoria – di comparare i lettori di allora a quelli di oggi, ma pare il caso di notare il tentativo di legare la modifica del «traffico d’influenze» e l’abolizione dell’abuso d’ufficio (già modificato nel 1990, 1997, 2020 e 2022) con recenti inchieste su Tommaso Verdini, Beppe Grillo e Luca Palamara.

I MAGISTRATI, TRENT’ANNI FA

Avevano oltre il 90 per cento dei consensi (1992-1993) ma è ormai un dato storico che abbiano quasi esaurito il credito: durante Mani pulite la corporazione camminava sulle acque di Tiberiade (con la fiducia di nove italiani su dieci) mentre alla fine del 2021, per fermarci a un sondaggio citato in diversi libri, questa fiducia era calata a un gradimento del 7 per cento e vedeva ridotto a un misero 30 per cento chi credeva «abbastanza» nel potere giudiziario. Tre decadi fa le interviste alle toghe «rivoluzionarie» erano oro, e comunque c’era la fila.

I MAGISTRATI, OGGI

Ieri i giornali stentavano nel trovare qualche magistrato disposto a difendere l’indifendibile, tipo l’abuso d’ufficio mischiato alla questione «traffico di influenze» e alla questione intercettazioni, come un solo e unico disegno criminoso governativo: tutta farina di un generico sacco giornalistico che nessuna toga seria era disposta a setacciare, perché non ci sono più magistrati disposti a sostenere sciocchezze del genere; la maggioranza dei togati a tutt’oggi lavora nell’ombra come ha sempre fatto, e parrebbe condividere (dalle chat o dalle poche fonti disponibili) che tutta la corporazione vada comunque riformata come in Italia non è successo semplicemente mai è l’unico caso , tanto che uno di loro, un magistrato protagonista di quegli anni, oggi è ministro della Giustizia e sta cercando di occuparsene. Rispetto a trent’anni fa resta immutato il «no» a tutto, rivendicato dal sindacato unico (Anm) e resta quindi la facoltà di riplasmare ogni norma a colpi di giurisprudenza e riaffermare un assetto senza contrappesi che non prevede un controllo che non sia un auto-controllo.

I MORALISTI, IERI E OGGI

Sono troppi, c’è il rischio di confonderli coi trasformisti o con un genere giornalistico che gira gabbana a mo’ di trottola. Per questo, a eterna memoria, scegliamo di immortalare solo l’articolo titolato «Il ritorno della questione morale» (con foto di Verdini, Berlusconi, ovviamente Berlinguer, poi Meloni e Nordio), scritto dalla mina svagante Flavia Perina, ex parlamentare di An poi inabissatasi con Gianfranco Fini (e assolutamente non rancorosa), secondo la quale la questione morale che più di trent’anni fa riguardò il racket tangentaro di certa politica (ma più seriamente mise a nudo i mastodontici costi della politica in un Paese che fu crocevia tra Est e Ovest nella travagliata fine della Guerra Fredda) è tutta roba paragonabile alla questione dei quadri di Sgarbi, all’inchiesta sui Verdini e a quella su Daniela Santanchè: (effetto déjà-vu); l’arguta commentatrice Perina evita di associare alla questione morale la questione dei saluti fascisti (forse perché memore di quando, ai tempi del Fronte della gioventù, nel 1977, passò 40 giorni di galera ingiusta prima di lasciare Rebibbia ed essere scagionata) ma soprattutto associa la nuova questione morale alla riforma della Giustizia di Carlo Nordio, «studiata e calibrata nel tempo con la diretta partecipazione del presidente Berlusconi»: a cui l’essere associati è ancora considerato da queste menti un disvalore, come se, peraltro, nel caso dell’ex parlamentare Flavia Perina, la stessa non ci avesse governato assieme fino alla frattura con Gianfranco Fini. Il problema è che il drammatico «continuismo del nuovo centrodestra rispetto al vecchio», insomma la nuova e centralissima questione morale, secondo Perina, deriva dal fatto che Giorgia Meloni tutto questo consenso non se l’è conquistato, «lo ha ereditato».

Dicono che anche Elly Schlein confidi sul testamento di qualche vecchio zio americano.

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