Nel mio piccolo ho dovuto superare una certa idiosincrasia verso gli strumenti tecnologici. Ho fatto esperienza dei troppo evidenti benefici. Tuttavia, oggi fatico ad addentrarmi con sicurezza nei territori dell’intelligenza artificiale di cui quotidianamente si sente parlare e si discute.
Siamo nel pieno della cosiddetta «transizione digitale» e a fare da traino con accelerazioni continue è proprio l’intelligenza artificiale. Essa è destinata ad avere un impatto decisivo nei campi più diversi della nostra convivenza. E, in modo particolare, sull’economia reale. Per le imprese si tratta di una sfida ad alto coefficiente di difficoltà proprio per la complessità della materia. Secondo una ricerca di Deloitte nei prossimi tre anni quattro imprese italiane su dieci investiranno in IA. Avendo individuato soluzioni interessanti a proposito di automazione, gestione dei processi, analisi dei dati, analisi e gestione dei rischi. Ci troviamo alle prese con un passaggio epocale, un punto di non ritorno. La riluttanza a priori avrebbe effetti negativi in termini di crescita e competitività. Ma in questa partita rimane centrale la persona, il capitale umano. Perché l’intelligenza artificiale, per quanto velocissima nel produrre risultati, è e deve restare uno strumento. Uno strumento sempre più efficace proprio perché guidato dal soggetto persona. Ecco perché gli investimenti delle imprese in intelligenza artificiale devono procedere di pari passo con quelli sul capitale umano. Perché l’uomo è l’uomo e la macchina è la macchina.
Sovvertire l’ordine naturale delle cose determinerebbe solo caos, paure, pericoli e improduttività. Le imprese, anche quelle piccole e medie, fanno benissimo a farci i conti per trarne i maggiori vantaggi. Con un nota bene: questa sfida tecnologica va governata, tenuta negli argini, posta al servizio dell’umano. Al servizio dell’intelligenza naturale.
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