Noia, solitudine, ricerca ossessiva della bellezza: Bestie, il primo romanzo di Dizz Tate (Neri Pozza), racconta la provincia americana, la vita di un gruppo di adolescenti che lottano in maniera spietata contro la società da cui provengono. Siamo a Fall Landing, in Florida, e all’improvviso scompare nel nulla Sammy, la figlia del predicatore…
Sembra che dietro l’apparente idillio, i piccoli centri nascondano mostri. Ma si può ancora essere felici lì?
«Per i personaggi del mio libro la felicità è fuga; da sé stessi, dai loro corpi, dalle loro vite. Sognano eccitazione, glamour e amore, una vita cinematografica. Questo desiderio è condiviso da tutti i giovani, ma soprattutto da quelli che provengono da luoghi di provincia e dalle periferie. È naturale aspirare a una grande vita quando vieni da un posto limitato».
La noia è pericolosa?
«Sicuramente, ma ho sempre fiducia negli adolescenti e nella loro capacità di sconfiggerla in un milione di modi! Ricordo le lunghe estati in Florida. Una volta siamo rimasti senza scuola per quasi cinque mesi a causa degli uragani. L’estate è sempre stata selvaggia, la battaglia contro la noia particolarmente furiosa. Io e i miei amici abbiamo passato mesi a correre l’uno per il quartiere dell’altro, infinitamente creativi nel modo in cui lottavamo per divertirci. Una volta abbiamo fatto una gara a chi riusciva a resistere più a lungo senza farsi la doccia. Andavamo al campo da golf e rotolavamo giù per le colline scivolose dopo un temporale. Abbiamo litigato e ci siamo fatti promesse per tutta la vita. Abbiamo realizzato strani film con le fotocamere dei nostri genitori. Abbiamo provato a scrivere libri. A volte correvamo in giro urlando per il gusto di farlo. Qualunque cosa pur di farci ridere a vicenda. Tutto per vincere la noia».
Perché la solitudine terrorizza?
«È il nostro stato più comune e quello da cui è più difficile liberarsi. Quando sei un bambino e un adolescente, ti vengono venduti sogni piuttosto irrealistici; le persone belle e famose sono quelle che si innamorano, quelle che hanno delle belle case. Ciò che mi piace dell’amicizia femminile, soprattutto in giovane età, è che si tratta di un qualcosa di feroce contro la solitudine; esige una lealtà e una dedizione divorante e un’incredibile apertura. Condividi abitudini, desideri, segreti. Non mi sono mai sentita sola in quell’occasione.
È un mito l’innocenza dell’adolescenza?
«Penso che le persone siano innocenti e il mondo no, e non abbiamo così tante storie che ci insegnano in modo accurato la realtà. O siamo troppo critici, o troppo ingenui. I personaggi del mio libro vogliono vivere vite più spettacolari di quelle che dovrebbero avere. Questo li rende indifesi».
Quanto conta la bellezza nella società americana?
«Per le ragazze è tutto. E penso che ora questa idea sia ancora più estrema. La bellezza attira l’attenzione, il che, soprattutto da giovane, è la stessa cosa dell’amore».
La nostra infanzia è un paradiso dove tornare?
«Non per me! Non era il paradiso, ma non era nemmeno l’inferno. Forse in un certo senso era il purgatorio, un luogo di attesa. Un periodo solitario e affascinante, in cui vivi nei tuoi sogni».
Perché le vicende narrate sono per lo più ambientate attorno a un lago?
«Volevo qualcosa che rappresentasse una versione antica, inconscia del mondo, quella da cui tutti veniamo e quella a cui tutti ritorniamo. L’esperienza meravigliosa e inquietante di crescere in Florida è che vivi in una struttura fragile all’interno di un luogo profondamente brutale. Uragani, temporali, inondazioni, paludi, alligatori, ogni sorta di creature velenose. Il lago per me rappresenta questa oscurità. I laghi prendono il loro tempo, aspettano che ti avvicini e poi possono consumarti».
A un certo punto scrive «alcuni uomini riescono ad amare le donne solo attraverso l’umiliazione»…
«Stavo cercando di rappresentare l’idea che, nelle relazioni, per assoluta ingenuità gli uomini si prendono la tua vita, il tuo tempo, e lo usano per sé stessi senza pensarci due volte. Questa è un’umiliazione, ma per loro è una forma naturale di amore».
Perché le giovani protagoniste del libro sono «bestie»?
«Questo libro è come il campo di battaglia finale tra ciò che è naturale per i miei personaggi a tredici anni e ciò che il mondo li costringerà presto a diventare. La loro innocenza li rende potenti. Non hanno idea della propria vulnerabilità e si offenderebbero se gliela facessero notare. Sono forti, terrorizzati dalla solitudine. Il mondo è in attesa, pronto a presentare il suo pieno e mostruoso potere, ma loro non vogliono accettarlo. Le chiamo bestie perché non sono disposte ad adattare il loro comportamento a quello che dovrebbe essere una ragazza. C’è quindi una lotta».
Nascondono le bestie dentro loro stesse o le esasperano?
«Ho la sensazione che stiano cercando di fare entrambe le cose, il che sembra assurdo, confuso, devastante, esilarante; come avere tredici anni».
Qual è la differenza tra chi vuole sperimentare sofferenza e amore e chi vuole capirli?
«È la discrepanza tra le persone che affrontano le esperienze senza paura, senza pensare alle conseguenze, e quelle che stanno in un angolo e osservano, cercando di prevedere cosa accadrà e di proteggersi dal dolore».
Perché spesso si finge di essere felici?
«Le mie ragazze non fingono di essere felici, ma forzano la felicità nelle loro vite contro ogni previsione. È un modo di sconfiggere i sistemi che cospirano contro di esse».
Tramite la perfidia si può essere più onesti?
«È difficile essere totalmente onesti, su chi sei, su chi sono le altre persone. Viviamo fingendo che le cose siano migliori, o potrebbero essere migliori. La fantasia ci è di conforto. Ma come si fa a essere onesti o disonesti quando non capiamo quasi nulla, tanto meno noi stessi?».