«La Francia non farà mai rima con declino, ma con grandeur». Si è presentato così il 34enne Gabriel Attal a Matignon, prendendo ieri il testimone di primo ministro dalla dimissionata Elisabeth Borne. Con le elezioni europee dietro l’angolo, il presidente francese ha investito in un volto fanciullesco – il più giovane premier della V Repubblica – giudicato da Macron il solo in grado di tener testa a Jordan Bardella, capofila della campagna lepenista per Bruxelles.
Attal, che lascia il ministero dell’Educazione, non ha mai chiesto scusa per certe sue intemerate. Come quando, da portavoce dell’esecutivo, nel giugno 2018 insultò l’Italia; accusata d’aver tenuto un atteggiamento «vomitevole» respingendo l’Aquarius con 630 migranti a bordo. Disse che era «immondo» far politica con le vite umane. Peccati di gioventù? Difficile a dirsi. Ora dovrà dare ordini a ministri ben più esperti di lui, da Darmanin a Le Maire (Interno ed Economia), pronti alle barricate per un nuovo governo tutto ancora da costruire. Ma il favorito del presidente è lui, gay dichiarato senza troppe ostentazioni. Ancora in vena di provocare Roma è il suo compagno, il capogruppo dei macroniani all’Europarlamento Stéphane Séjourné, che ieri ha tentato di mettere in cattiva luce l’Italia citando i saluti romani alla commemorazione di Acca Larentia: «Qualcosa che non possiamo tollerare, queste immagini come il ritorno dell’estrema destra in generale». A lui offre un bignami di storia il copresidente del gruppo Ecr al Parlamento Ue, Nicola Procaccini (FdI): «Il giorno in cui vorranno smettere di intervenire sulla politica italiana, senza averne né titolo né conoscenza, sarà un bel giorno di rispetto reciproco». Eppure, Attal di rispetto parla spesso. Ne ha fatto una battaglia personale anche a scuola. Lui, che di bullismo è stato vittima per il suo essere omosessuale. Schivo, combattivo quando serve, solo a titolo personale in passato ha aperto alla Gpa «etica» (la maternità surrogata non a scopo di lucro). È un singolare cavaliere solitario dell’ala gauche, che discute anche con Sarkozy e i neogollisti. Buone doti di mediazione. Soprattutto sa parlare ai francesi. Ieri ha citato non a caso il sostegno alla classe media come fulcro del suo lavoro a Matignon. Un’ascesa lampo. Da baby-militante socialista, a consigliere ministeriale nel regno di Hollande.
Nel 2017 la vera discesa in campo, con Macron. Eletto deputato, nominato sottosegretario l’anno seguente e nel 2020 portavoce del governo passa due anni vis-à-vis con i giornalisti, e col bis di Macron all’Eliseo ancora promosso: ministro con delega ai Conti pubblici fino al rimpasto del luglio scorso che lo porta all’Educazione, dove nasce una sorta di adorazione dei francesi nei suoi confronti, riconosciuta dai sondaggi, concordi nell’attribuire al sensibile «Gabriel» la corona di più amato ministro della Macronie. Ma l’anti-Borne riuscirà nell’impresa di rilanciare il Quinquennato? Finora leale al presidente. Sigaretta elettronica nella mano destra, cellulare a sinistra e pragmatismo in tasca: «Un ministro non deve mai dire bisognerebbe… perché è già sintomo di impotenza», è uno dei suoi mantra. Positiva l’azione contro l’abaya in classe in difesa della laicità a scuola. Ha aiutato i prof a «difendersi» dall’islam militante e chiamato i genitori a una riflessione. Prima trasferta da premier, ieri: tra gli alluvionati di Calais.