Giuseppe Antonelli ha curato La vita delle parole. Il lessico dell’italiano tra storia e società (il Mulino, pagg. 786, euro 38). Impossibile citare tutte le autrici e tutti gli autori. Ci limitiamo a segnalare l’autorevole saggio di Luca Serianni, grande linguista morto nel 2022, e maestro del curatore. Antonelli insegna Linguistica e Storia della lingua italiana a Pavia, dove lo incontriamo per parlare dei temi sollevati dal libro: il valore e la vita delle parole, dei dialetti, del gergo e soprattutto dell’italiano. La nostra lingua, come tutte le altre, sarà messa alla prova dalle Intelligenze artificiali, e Antonelli presenta qui gli studi più recenti, da lui condotti, proprio in questo campo.
La parola dell’anno nel 2015 era la emoji con la faccina che piange: quella dei telefoni e dei social è una nuova lingua?
«La cosa che colpisce è la rapidità con cui invecchiano queste mode on line. All’inizio, con gli sms, la questione sembrava risolversi nelle abbreviazioni (xché). Poi il fenomeno è passato di moda. Arrivarono così le emoticon, le faccine fatte con i segni di punteggiatura, seguite a ruota dagli emoji, cioè i disegnini che riportano emozioni, parti del corpo, gesti, oggetti. Poi sono arrivate le Gif, immagini animate. All’inizio del processo, è sembrata una rivincita della scrittura perché grazie agli sms hanno cominciato a scrivere persone che non avrebbe mai scritto un rigo fino a poco tempo prima. La tecnologia è diventata sempre più multimediale, il telefonino tradizionale ha lasciato il posto allo smartphone. L’immagine ha cominciato a rispedire la scrittura. Guardiamo i social network, senza considerare quelli per persone di mezza età come Facebook. TikTok e gli altri sono quasi esclusivamente immagine. Nella comunicazione privata, i messaggi vocali, che non sono messaggi scritti ma neanche telefonate, hanno cominciato a prendere il posto del messaggio scritto. Quindi in questo momento la scrittura, la parola scritta, è di nuovo marginalizzata dal vocale e dall’immagine. Un’ultima considerazione: questo italiano telematico lo battezzerei i-taliano».
Quale impatto avrà l’Intelligenza Artificiale?
«Potrebbe far sì che gran parte della scrittura sia delegata a questo tipo di strumenti. D’altro canto potrebbe invece riportare in auge un certo tipo di scrittura più ordinata, più composta, più organizzata. È un fatto che l’italiano cambierà a seconda dei testi di cui si nutrirà l’intelligenza artificiale».
Una AI può scrivere un’opera d’arte?
«Lo sperimentalismo di fine 900 ha provato a far scrivere una macchina. Anche i primi computer sono stati utilizzati per realizzare esperimenti sulla scrittura. Le AI potranno scrivere le istruzioni di un elettrodomestico. Probabilmente si potranno scrivere anche dei testi creativi, non a caso a Hollywood hanno scioperato a lungo gli sceneggiatori. Non possiamo ancora rispondere, ne sappiamo poco».
Lei studia l’italiano di ChatGPT, una delle più note AI. Quali sono i risultati?
«C’è una certa riproducibilità della struttura sintattico testuale. Per esempio, mi ero accorto che la versione 3.5 tendeva a mettere in evidenza, a inizio di periodo sintattico, i connettivi: dunque, tuttavia, perciò. Un tentativo evidente di simulare le modalità di un ragionamento. La versione 4.0 mi pare abbia preso a mettere il soggetto all’inizio del periodo, come consigliano i manuali di scrittura».
Come ha interrogato la AI?
«Ad esempio le ho chiesto di elaborare lo stesso testo secondo diverse varietà dell’italiano. Prima in termini tecnici linguistici, cosa che ha fatto bene, pur con qualche incertezza. Poi ho chiesto di rispiegare lo stesso concetto in romanesco e devo dire: non se l’è cavata male. Poi ho chiesto di confezionare un messaggio per i social a partire dallo stesso contenuto: e allora ha cominciato a usare emoji e hashtag».
Che lingua parla ChatGPT?
«Lo standard American, cioè lo standard dell’inglese-americano. Molti segnali ci dicono che la Chat GPT italiana traduce dall’inglese. Ad esempio, traduce scenario in sceneggiatura. Fa molta confusione tra analisi grammaticale, analisi logica, analisi del periodo».
Riconosce l’errore?
«Le ho chiesto di correggere degli errori che io avevo inserito appositamente in una favola di Rodari. Per esempio se l’originale diceva, cito a memoria, ci sono tanti colori giallo rosso e blu, io inserivo giallo rosso e brutto. ChatGPT correggeva: Questo non è un colore. Se io dicevo perdere invece di cercare, replicava: Questo è il contrario di ciò che ci si aspetta. Forse non riconosce il significato, ma riconosce la connessione logica, quella che in termini tecnici si chiama coerenza testuale. Corregge gli errori di ortografia, ma questo me lo aspettavo. Ogni tanto va in tilt e sbaglia da sola».
Adesso la faccio tornare indietro, a dialetti e regionalismi. Cosa sono? Esistono ancora?
«Nicola De Blasi, nel suo saggio, si confronta con tutti i pregiudizi e i luoghi comuni sui dialetti. Dal punto di vista interno, cioè del funzionamento e della struttura, tutti i dialetti sono lingue. Non sono ramificazioni di una lingua originaria, ma sono lingue originarie che poi sono state, mettiamola così, sconfitte dal fiorentino letterario del Trecento. Quando l’italiano ha avuto la possibilità di diventare la lingua davvero quotidiana, nella seconda metà del Novecento, dopo il boom economico, si è temuto che questo potesse significare l’omologazione di un italiano piatto e la scomparsa dei dialetti. Il più grande sociolinguista italiano, Gaetano Berruto, aveva previsto che nel 2030 i dialetti sarebbero scomparsi. Pochi anni dopo, si rese conto che la tendenza era cambiata. Che cosa è successo? Berruto lo spiegava con una formula straordinaria: ora che sappiamo parlare italiano, possiamo tornare a parlare il dialetto».
Dialetto e gergo hanno qualcosa in comune?
«No, il gergo è una lingua parlata all’interno di una comunità ristretta, non di tipo geografico ma di tipo sociale. Quindi diciamo: persone che fanno la stessa cosa. Il primo uso proprio del gergo era legato all’ambiente della malavita perché la funzione storica del gergo era quella di nascondere all’esterno ciò che si stava dicendo».
Cos’è il linguaggio giovanile?
«Molto spesso si parla di gergo giovanile a proposito di quello che invece, forse più correttamente, andrebbe chiamato linguaggio giovanile o forse, ancora più correttamente, vocabolario giovanile. Gianluca Lauta ha ricostruito in maniera convincente la sua origine: il linguaggio giovanile nasce come linguaggio snob e non popolare. È più vicino a quello, appunto, della signorina snob di Franca Valeri o a quello che veniva usato già negli anni Trenta da alcuni giornali satirici. Il concetto di linguaggio giovanile nasce con il concetto di giovani, quindi si definisce negli anni Sessanta ed esplode con il ’68. A predominare è l’intento giocoso. C’è l’intento netto di distinguersi dalla lingua degli adulti. Il lessico giovanile cambia in continuazione. Ci sono dei dizionari degli anni Settanta in cui si vede che una parte del vocabolario giovanile è entrata nel lessico di tutti i giorni: innamorato cotto, gasato, euforico. Un’altra parte è scomparsa».
I ragazzi oggi dicono «shoppare», cioè comprare on line.
«Il linguaggio giovanile si è avvicinato al linguaggio telematico. In shoppare sentiamo l’influenza dell’inglese. Ma ci sono esempi tutti italiani, ad esempio l’appellativo amo per amore. Mentre il Bro e il Fra sono calchi ancora una volta dallo slang americano, Amo è uno straordinario caso di troncamento, contrario a tutta la tradizione, nel senso che noi avevamo al limite amor. Da tempo immemorabile avevamo, se vogliamo, l’italiano regionale, il romanesco, amó. Ma questo amo con ritrazione dell’accento è unico».
Cosa permette a una lingua di lasciarsi penetrare da tante novità eppure di rimanere se stessa?
«L’italiano ha una storia molto particolare. È di origine letteraria. Non nasce per una progressiva conquista politica, come il francese, non nasce neanche sulla base di un modello religioso come il tedesco, ma nasce per imitazione di un modello letterario che è il fiorentino di Dante, Petrarca e Boccaccio. Fu il veneziano Pietro Bembo, umanista del Cinquecento, a decidere che Dante, Petrarca e Boccaccio dovevano essere il modello della lingua letteraria. Se ne infischiava di ciò che sarebbe successo nel parlato. Era in cerca di una lingua che potesse essere imparata e capita dalle persone colte dell’intera penisola. Questa origine ha garantito per secoli una continuità. È come se l’italiano fosse cresciuto sotto vetro. Eppure la forza di quel modello si è rivelata straordinaria: l’italiano dei colti ha retto l’impatto con il parlato quotidiano».
È giustificato l’allarme verso gli anglismi?
«È un fenomeno recente. Ha meno di un secolo. Prima il modello di riferimento era il francese. Ma in ogni caso le parole riconoscibili nel nostro vocabolario sono un 3%. L’inglese si usa quando si parla di certi sport, di affari, di tecnologia. Ma io ho la netta sensazione che non ci sia vera penetrazione nella lingua quotidiana».