Quest’anno «Le Parole di Hurbinek», le giornate della memoria che si svolgono a Pistoia dal 20 al 28 gennaio si incentreranno, come è stato annunciato ieri nella conferenza stampa di presentazione, su una parola: «Ghetto». Come ha spiegato il direttore Massimo Bucciantini: «La parola che Hurbinek ci ha consegnato quest’anno è Ghetto. È una parola pesante e stratiforme, che ne contiene altre. Una parola ruvida e aspra, come ruvida e aspra è la parola verità che l’esistenza stessa di Hurbinek, un figlio di Auschwitz, reclama e impone di continuare a cercare. Solo a pronunciarla incute timore e atterrisce. Per il suo passato multiforme e tragico e, forse, ancor più per il suo futuro a dir poco luminoso, visto quanto siamo bravi, noi sapiens, a ramificarla e incistarla nelle viscere del nostro presente». E allora in attesa delle riflessioni e delle letture che verranno presentate a Pistoia abbiamo intervistato lo scrittore e giornalista veneziano Alessandro Marzo Magno – autore tra gli altri titoli di La splendida. Venezia 1499 – 1509 e Casanova (entrambi per i tipi di Laterza) – per farci raccontare le origini della parola «ghetto», che a Venezia è nata, ma con un senso molto diverso rispetto a quello con cui oggi viene utilizzata.
Alessandro Marzo Magno, come è nata la parola ghetto? Come è iniziato tutto a Venezia?
«Allora, nel marzo del 1516 per un decreto della signoria a tutti gli ebrei della città venne ordinato di risiedere in un luogo determinato che venne denominato ufficialmente il serraglio dei giudei. Questo luogo venne identificato nel sestiere di Cannaregio, in una zona dove vi erano delle ex fonderie. Per la Serenissima costruire campane e cannoni, soprattutto i secondi, era una questione di primaria importanza e tutte queste attività vennero spostate all’Arsenale. Lo spazio liberato venne destinato agli ebrei, si prestava ad essere isolato e sorvegliato e c’erano anche una serie di abitazioni che vennero sostanzialmente espropriate mandando altrove gli abitanti».
Ma il nome ghetto?
«C’erano due fonderie che erano chiamate il getto nuovo e il getto vecchio. La prima in cui si insediarono gli ebrei fu il getto nuovo. Gli ebrei di provenienza aschenazita non pronunciavano la G morbida, e così il Getto divenne il Ghetto. Col tempo divenne uno degli insediamenti più importanti, anche dal punto di vista culturale, per gli ebrei europei e così la parola ha assunto un significato generalizzato, con tutte le sfumature che conosciamo».
Ma perché il governo della Serenissima decise di creare uno spazio chiuso dove radunare la popolazione ebraica?
«Furono gli ebrei a chiederlo. Però per spiegarlo dobbiamo fare un passo indietro. Dopo il 1492 moltissimi ebrei sefarditi vennero espulsi dalla Spagna. Molti trovarono rifugio nei territori della Serenissima, dove avevano già trovato rifugio anche ebrei fuggiti dai territori tedeschi. Una nuova ondata di arrivi si ebbe a partire dal 1509, quando gli sconvolgimenti della guerra della Lega di Cambrai portarono numerosi ebrei a riversarsi dalla terraferma alla laguna. All’inizio gli ebrei risiedevano a Mestre e poi si recavano a Venezia tutti i giorni per lavorare, erano attivissimi come mercanti. Però di notte in quanto non veneziani erano obbligati a lasciare la città. Decisamente molto scomodo. Se potevano cercavano di restare a Venezia di straforo. Alla fine la creazione del ghetto fu una soluzione condivisa».
Un caso unico?
«In realtà fu una soluzione sviluppata su altri modelli già utilizzati dal governo della Serenissima. Il fondaco dei tedeschi o il fondaco dei persiani funzionavano allo stesso modo. Dal tramonto all’alba i mercanti stranieri dovevano obbligatoriamente risiedere in questi luoghi e pagavano di tasca propria dei sorveglianti che controllavano che non uscissero. Le porte del Ghetto funzionavano nello stesso modo. Il Ghetto però era molto più ampio di un fondaco e arrivò ad ospitare sino a 5mila persone. Infatti è una zona particolare di Venezia dove le case sono, proporzionalmente, più alte che nel resto della città. Sicuramente c’era una densità abitativa decisamente alta».
Ma i rapporti tra gli altri veneziani e gli abitanti del Ghetto come furono?
«A Venezia, proporzionalmente all’epoca, i rapporti tra i gentili e gli ebrei furono tendenzialmente buoni, certo il governo non si faceva sfuggire occasione per tassarli ma c’era tolleranza e Venezia divenne un centro fondamentale per la cultura ebraica. A Venezia venne stampato il Talmud babilonese e di Gerusalemme fra il 1516 e il 1524, nel Ghetto risiedettero figure culturali di primo piano come il rabbino Leone Modena che fu un intellettuale a tutto tondo, il più importante del mondo ebraico italiano tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento. O anche una scrittrice come Sara Copio Sullam, donna ed ebrea al centro di un salotto culturale frequentato da moltissimi intellettuali».
La fine del Ghetto?
«Le porte del Ghetto vennero bruciate dopo che la Serenissima cadde sotto il controllo francese, nel 1797, una delle poche buone imposizioni dei francesi fu la parificazione dei cittadini, per il resto furono piuttosto predatori con la città. Poi la parola ghetto ha fatto la sua strada, che ha poco a che fare con quello di Venezia e le sue bellissime sinagoghe, dei veri gioielli».