In pensione il giudice di piazza Fontana

In pensione il giudice di piazza Fontana

Un gioco pirotecnico di dietrologie usurate o strampalate, una sfilza di personaggi che sembravano fare la gara a chi la sparava più grossa sul rapimento di Aldo Moro. E poi, come in un angolo, fuori dal coro dei botti e dei petardi, il giudice Guido Salvini, ospite domenica sera della puntata di Report sul sequestro del presidente della Dc. Scrive l’indomani l’Huffington Post, «per fortuna si dà voce anche a Guido Salvini che da magistrato e consulente di commissioni parlamentari sa quello che dice e lo sa dire in modo comprensibile». E lui, che di quella pagina buia e tragica più di tutti gli altri messi insieme, prova a riportare tutti con i piedi per terra: invano.

Perché Guido Salvini ha avuto questo pregio. Ha attraversato per trent’anni misteri grandi e piccoli con piglio puro da magistrato: senza accontentarsi della verità più ovvia ma senza innamorarsi delle fantasie che pistaroli di ogni genere (carabinieri, giornalisti, magistrati) si sono inventati in questi anni per rendere complicato ciò che era semplice.

La stanza 36, al settimo piano del palazzo di giustizia, adesso è semivuota. Ieri pomeriggio, nel palazzo ormai deserto, Salvini era lì, a scrivere la sua ultima sentenza. Dall’11 dicembre, giorno del settantesimo compleanno, è in pensione. Non ci sarebbe voluto andare, ha sperato fino all’ultimo in un decreto che prolungasse l’età dell’addio.

Niente da fare. Ma non ha mai lasciato scadere i termini per il deposito di una sentenza, e non vuole cominciare adesso che è alla fine della carriera. Così eccolo lì, ieri, nell’unica stanza accesa del tribunale deserto. La sua ultima sentenza è una assoluzione.

Ha arrestato a destra e a sinistra. Ha trovato i colpevoli della strage di piazza Fontana, la cellula veneta di Ordine Nuovo, mettendo le basi anche per risolvere altre pagine terribili di quegli anni: Brescia, la stazione di Bologna. Ma ha anche arrestato, dieci anni dopo il delitto, gli assassini rossi di Sergio Ramelli, e per questo la sinistra milanese lo ha detestato a lungo. Lo accusarono di avere tradito il bon ton dell’omertà, di avere sfruttato una battuta sentita a una cena per iniziare a indagare. Ma la sua vera colpa fu ribaltare il depistaggio che da subito, con Ramelli ancora agonizzante, i responsabili dell’agguato avevano organizzato ai danni di un’altra fazione dell’ultrasinistra.

Di depistaggi, nei suoi quarantadue anni di toga, Salvini ne ha incontrati molti altri. Senza scandalizzarsi troppo, senza reagire inventando livelli occulti, strutture deviate: e restando invece attaccato all’unica cosa che conta, la cruda verità dei fatti, mosso da una curiosità inesauribile. Molto logico, un po’ cinico, una specie di Guglielmo da Baskerville, senza padroni come il frate-investigatore del Nome della rosa. Con tutti i disamori che in magistratura toccano a volte ai cani sciolti.

È stato un giudice investigatore, figlio di un’epoca in cui il vecchio codice assegnava ai giudici istruttori entrambi i ruoli; in quella veste ha indagato sulle stragi, e quello spirito se l’è portato appresso in fondo anche dopo. Quanti pubblici ministeri, in questi decenni, si sono sentiti indicare da Salvini una strada da battere, un accertamento da compiere? Raramente chi gli ha dato retta è rimasto deluso, perché il fiuto da Baskerville non aveva abbandonato Salvini.

«Ho interrogato più di un migliaio di persone tra terroristi di destra e di sinistra – racconta ieri – e con pochissime eccezioni vi è stato da parte loro sempre un atteggiamento di correttezza. Credo che questo dipenda dal modo con il quale ti poni. Non ho mai mostrato di essere nemico di loro come le persone e nemmeno di voler giudicare le loro ideologie. Ero lì solo per accertare la verità su quelli che, da qualsiasi parte fossero stati commessi, erano delitti, evitando il rischio di confondere la giustizia con le mie idee personali. E non è un caso che nel corso degli anni sia capitato spesso di incontrare ex terroristi in occasioni pubbliche, altri sono venuti anche dopo tanto tempo a salutarmi ufficio, e non vi è mai stata alcuna forma di imbarazzo. Piuttosto è continuato un dialogo che in qualche modo era iniziato già allora».

Nell’andirivieni di ex terroristi nella stanza 36, anche Marco Barbone, l’assassino del giornalista Walter Tobagi. E l’ultima verità scoperta da Salvini sono state le carte che confermano ciò che il giudice ha sempre pensato: l’inviato del Corriere della sera poteva essere salvato.

Leave a comment

Your email address will not be published.