Essere o non essere (sportivi)?

Essere o non essere (sportivi)?

Il primo a utilizzare il termine fair play fu William Shakespeare in La vita e la morte del re Giovanni. Escludo che la gente del football abbia letto l’opera del drammaturgo inglese ma si scrive e si parla molto di fair play e se ne hanno diverse interpretazioni. Ad esempio ci sono i calciatori che si nascondono dietro l’alibi della trance agonistica e i fumi della contesa, è accaduto, per ultimo ma fra mille, a Di Marco che ha sbeffeggiato il rigorista mancato Henry del Verona, un ghigno che fa parte del gioco, almeno si usa dire così. Poi c’è Andreazzoli, allenatore dell’Empoli, che applaude al gol milanista di Loftus-Cheek. Lo stesso Andreazzoli, a fine partita, è tornato a parlare del regolamento definito una schifezza a danno degli stessi arbitri che non capiscono quello che devono fare e si comportano in mondo diverso su situazioni analoghe. Dunque il fair play è un quadrifoglio in mezzo alla gramigna, un altro scrittore britannico, George Orwell, sosteneva che lo sport serio non ha nulla a che fare con il fair play perché legato all’odio, all’invidia, alla vanagloria all’inosservanza di tutte le regole, al piacere sadico di assistere alla violenza. In altre parole è guerra senza spari. A questo punto come scriveva Shakespeare, bisogna scegliere: essere e non essere sportivi? Al Var l’ardua sentenza.

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