La guerra a Gaza fa manovra mentre Israele deve vedersela da adesso su due fronti, anche se ancora con gli Hezbollah è un insieme di missili e punti interrogativi. Un terzo dell’esercito è già a Nord, si mormora con insistenza anche di una mancanza di munizioni (cui supplire con l’aiuto americano). Sul confine da città come Sderot a Sud e Kiriat Shmone a Nord sono stati sgomberati kibbutz e almeno 200mila cittadini chiedono di tornare a casa, ma non per vivere fianco a fianco con nemici che promettono di uccidere tutti gli ebrei. Nasrallah ha aumentato il volume della minaccia sparando missili molto raffinati su importanti istallazioni sul monte Merom dopo che Al Arouri era stato eliminato sul suo territorio. Ma è una giostra della fortuna: può diventare una guerra terribile, che investa Tel Aviv di missili iraniani, o bloccarsi sulla paura che Nasrallah ha di passare alla storia come il distruttore dell’intero Libano, questa è la minaccia. L’hanno ripetuto Netanyahu e Gallant: la guerra continua fino alla vittoria su Hamas, al ritorno dei rapiti, alla sicurezza per Israele. Una scommessa che ancora aspetta un piano: se ne discute freneticamente in questi giorni.
A Gaza fase di passaggio, dalla fase due alla fase tre. Si va dal Nord al Sud, passando per Sinwar, al centro di Khan Yunis: nei suoi anfratti è stato trovato di tutto, dalle armi di precisione autoprodotte fino a grandi archivi che disegnano un’organizzazione miliardaria e minuziosamente preparata a uccidere. Una nuova foto di Mohammed Deif lo mostra con una mano piena di dollari e l’altra (funzionante contro le informazioni precedenti) con una tazza di caffè. Il portavoce dell’esercito Daniel Hagari ha svoltato l’angolo della terza fase: già alcuni battaglioni di riserve hanno ritrovato la via di casa. Il Nord della Striscia è a pezzi, i leader eliminati; la tensione è sul centro e sul Sud. Il disegno della rete di gallerie diventa più chiara e molto intensa la campagna per distruggerle, si capisce che c’è un’evidente ricerca a Khan Yunis e dintorni dei grandi capi, Sinwar e Deif.
La grande speranza è quella di salvare un numero rilevante di ostaggi, specie le ragazze. È di questi giorni la testimonianza di prigioniere tornate: la 17enne Agam Goldstein, rapita dopo che le hanno ucciso il padre sotto gli occhi, ha raccontato episodi terribili di violenze sessuali e ferite alle ragazze rinchiuse con lei, i pianti, la vergogna e l’oltraggio. E una madre, Danielle Aloni, ha raccontato di come ha detto alla figlia di tre anni, mentre le rapivano per poi strapparle l’una dall’altra, che stavano per morire e di come la piccola la consolava e le asciugava le lacrime. Questi episodi, insieme al lutto per i soldati uccisi, ogni giorno si intrecciano con la voce del premier Netanyahu di combattere fino in fondo: le insinuazioni che continui la guerra per restare al suo posto hanno trovato la reazione scandalizzata persino di Benny Gantz. Oggi il sindacato farà uno sciopero di cento minuti dalla parte dei rapiti: come se a Sinwar importasse qualcosa. Nulla lo smuoverà se non il suo obiettivo: una tregua lunga o l’interruzione della guerra. Non avverrà.
Di fronte alla furia ideologica e agli attacchi terroristici del mondo islamico Israele e gli americani fanno di tutto per mantenere un terreno di discussione in cui tutti gli attori, nazionali e internazionali, portano opinioni diverse e mosse contrastanti. Il messaggio che Blinken porta a Netanyahu è: «Non vogliamo vedere un’escalation a Nord». Dall’altra parte proprio lui pochi giorni fa ha dichiarato che Israele deve riportare la gente nei luoghi da cui è stata espulsa. Blinken calma Erdogan. Poi fa tappa a Doha. Adesso spera che da un cocktail avvelenato esca una nuova ricetta.