Sapete qual è il colmo per un leone da tastiera come Marcello Degni? Essere giudicato da un altro leone da tastiera. Sembra una barzelletta, invece è l’ennesimo paradosso di una giustizia – quella sì – da barzelletta. Tommaso Miele, presidente aggiunto della Corte dei conti, nonché uno dei componenti del Csm interno che si occuperà di emettere sentenza sulle ormai famigerate frasi della toga contabile anti-governo («Potevamo farli sbavare di rabbia sulla manovra», solo per citare la più eclatante) qualche anno fa aveva fatto discutere per alcuni tweet in cui insultava Renzi e alcuni post sui social in cui lodava il M5S. «Oggi è tornato sulla scena il cazzaro di Rignano. Ancora parla. Ha la faccia come il c**o»; «Italiani, in futuro ricordatevi chi è Renzi: arrogante, presuntuoso, prepotente, incapace, bugiardo: che non si accosti più a Palazzo Chigi»; «Bullo furbastro bugiardo»; «Stasera ho deciso, per evitare che torni Micron, che proprio non lo reggo, voterò convintamente M5S»; «Grande vittoria di Micron oggi, grande vittoria del M5S domani alle elezioni politiche». Eccolo il repertorio di Miele, iniziato nel 2016 e andato avanti fino a dopo le elezioni del 2018.
Il vetriolo per Renzi era tanto che lo stesso leader annunciò querela nei confronti di Miele. «I Cinque Stelle vogliono alla guida della Corte dei Conti un magistrato che mi ha insultato pesantemente in più di una circostanza. Per me personalmente non c’è che una soluzione: chiedere i danni in sede civile per gli insulti e le menzogne. E questo faccio», tuonava il rottamatore nella sua newsletter del 2 settembre 2020. E poi aggiungeva che «è sconvolgente che nessuno rifletta sul fatto che questa politicizzazione scandalosa, con l’assegnazione di incarichi di responsabilità a chi insulta leader politici, è devastante per la credibilità delle Istituzioni». La bufera che si scatena – a dire il vero nel silenzio totale dei media e politici progressisti – è tale che Miele, all’epoca in pole position per la nomina a presidente nazionale della Corte, si ritira dalla corsa adducendo motivi personali. I malpensanti sostengono che sarebbe stato troppo: un governo presieduto da Conte non avrebbe potuto avallare l’ascesa professionale di un magistrato etichettato come fan dei grillini. Dal canto suo Miele ha sempre negato che quei tweet li abbia scritti lui. «L’unica cosa che posso dire è che lasciavo l’iPad in giro in ufficio e altri parlavano con la mia bocca: io Renzi l’ho sempre ammirato», dichiarerà al Foglio – che aveva scovato i tweet incriminati – nel settembre 2020, rinnegando anche le simpatie per il M5S e rivendicando di essere «riconosciuto da tutti come un magistrato di grande equilibrio».
Nessuno mette in dubbio la sua integrità, ma è anche indubbio che Miele cancellò tutti i suoi profili social nel periodo in cui il M5S aveva stretto l’alleanza con il Pd. Ma anche qui per lui nulla di anormale: «L’account era mio ma a scrivere non ero io». Insomma, un caso da leone di tastiera a sua insaputa. Ma al netto delle battute e delle giustificazioni che lasciamo valutare al lettore, speriamo che a giudicare il caso Degni sia lui e non qualcun altro.