L’ Africa è il continente di cui si continua a non parlare. O meglio di cui si continua a parlare soprattutto per luoghi comuni. Si può scegliere il luogo comune buonista, quello che vede in questo territorio enorme e vario solo una distesa di povertà. E allora si enumereranno solo disastri coloniali e post coloniali, la geremiade degli aiuti necessari e sempre in difetto, l’inevitabilità dell’emigrazione… E si può scegliere il luogocomunismo minoritario, che vede l’Africa sempre sul punto di decollare. In questo caso si leggerà il solito temino sui Paesi emergenti. Alcuni stanno emergendo da un cinquantennio.
Federico Rampini nel saggio La speranza africana. La terra del futuro: concupita, incompresa, sorprendente (Mondadori) tenta un esercizio un po’ più complesso ma anche più interessante. Smonta un sacco di stereotipi grandi e piccoli. A partire dalla cartografia. Tanto per dire, l’Africa, come dimensioni, è seconda solo all’Asia, anche se nei nostri atlanti viene «rimpicciolita». Il continente nero ha una superficie che supera gli Usa, la Cina e l’India messi assieme. Ed è un crogiolo incredibile: è l’area più frammentata del pianeta per numero di gruppi etnici e linguistici, più di duemila. Dopo di che sta inanellando una serie di record che vanno compresi, altrimenti ogni ragionamento sul futuro della razza umana ne esce distorto. Sul piano demografico il continente ha tre record, la popolazione che cresce di più, la popolazione più giovane e la popolazione che più rapidamente si sta spostando verso le città, abbandonando le campagne. Dal punto di vista economico la performance è meno brillante eppure, anche in questo caso, molto sta cambiando. I consumatori africani sono quelli il cui potere d’acquisto cresce più velocemente, anche perché partivano da un livello molto basso. Tutto questo spiega perché il XXI secolo vedrà l’Africa ricoprire un ruolo determinante. E non solo in negativo, non solo come un «buco nero» di sciagure o di colpe su cui l’Occidente deve fare qualcosa. Nel 2014 l’allora presidente sudafricano Jacob Zuma, come racconta Rampini, lanciò quello che in seguito è diventato un leitmotiv tra intellettuali e politici africani: «Oggi siamo in grado di raccontare noi la nostra storia, anziché lasciare che siano gli altri a raccontarla per noi».
Questo è uno dei punti di forza del saggio, che raccoglie voci e spunti dalle nuove voci del Continente, nella sua varietà. Quello che emerge con chiarezza è che sta prendendo corpo una sorta di classe media africana che si piange poco addosso e non vuole la nostra compassione. Questa classe media, nella sua peculiarità e originalità, brilla per un giovanile ottimismo cosmopolita, che non è un ottimismo buonista ma un rimboccarsi le maniche, una aspirazione a far da soli per uscire dai guai, a partire anche da un certo individualismo. Questo con tutte le complessità del caso. La Cina ha approfittato del fatto di non avere un passato coloniale (non a quelle latitudini) per vendersi come un aggressivo partner commerciale. Solo ora alcuni Paesi iniziano a capire che avere a che fare con Pechino può essere peggio che avere a che fare con Washington o con le capitali europee. Di certo però, se l’Europa non rifletterà su questi temi perderà un treno importante. Per se stessa e per l’Africa.