La crisi in Medio Oriente ormai è un buco nero per l’amministrazione Biden. Gli attacchi di Hamas contro Israele del 7 ottobre hanno messo in moto un’escalation che sembra sempre più incontrollabile. Non solo. Hanno anche messo in luce la debolezza del presidente sul dossier. La Casa Bianca è assediata da più fronti, interni ed esterni, fronti che mettono a rischio non solo il ruolo di potenza globale di Washington, ma anche la corsa alle presidenziali di Joe Biden.
Il fronte interno
Uno dei nervi scoperti più delicati per Biden è il fronte interno. L’appoggio incondizionato a Israele sta costando carissimo al presidente. Il 3 gennaio un gruppo di 17 persone, assunte per lavorare al comitato per la rielezione del presidente, ha scritto una lettera aperta per criticare la decisione di Biden di supportare Israele e per chiedergli di lavorare per far finire le violenze. Un malumore che non coinvolge solo chi lavora per farlo rieleggere, ma ogni ambito dell’amministrazione. Da mesi una parte dello staff della Casa Bianca esprime malumori per la guerra a Gaza, con memo interni, riunioni e il capo dello staff costretto a fare da pacere. A fine novembre aveva creato non poco imbarazzo un post pro Palestina su Facebook di un alto funzionario della Cia.
A Capitol Hill, invece, non mancano i mal di pancia tra i senatori dem che non hanno visto di buon occhio la decisione di scavalcarle il Congresso per inviare armi in Israele. A condire il tutto i sondaggi: il 61% degli americani disapprova il modo in cui Biden sta gestendo il dossier. In più la minoranza musulmana americana ha detto a Biden di non volerlo sostenere in vista delle elezioni. E con loro, una fetta consistente dei giovani americani, sempre più vicini alle istanze palestinesi. Due “defezioni” che in alcuni Stati in bilico possono fare la differenza.
Il Pentagono in pressing
Sempre sul fronte interno, ma con lamentele di segno opposto, pesa una certa tensione tra la Casa Bianca e il Pentagono. Da ottobre basi e soldati americani tra Siria e Iraq sono nel mirino di razzi e droni delle milizie sciite vicine all’Iran, con quasi un centinaio di raid e una decina di militari feriti. L’amministrazione ha promesso risposte, ma per il momento i raid americani sono poco meno di una decina. L’esercito vorrebbe un approccio più muscolare, ma Biden è molto cauto. Il rischio, si mormora tra i corridoi del Pentagono, è di incidenti sempre più gravi, magari di un soldato Usa ucciso. Intanto, ha scritto Politico, la guerra a Gaza ha costretto il dipartimento della Difesa e le forze armate a elaborare scenari di guerra più ampia. Quattro ufficiali hanno confessato che all’interno dell’amministrazione americana si continua a discutere sui possibili scenari di guerra in cui gli Usa rischiano di venire trascinati.
L’escalation nel Mar Rosso
Altro fronte delicatissimo per Biden è quello del Mar Rosso. Gli houthi sono riusciti a tenere sotto scacco uno degli snodi globali più delicati e importanti del mondo. Per il momento Washington si è limitata a creare una sorta di scudo missilistico con le sue navi, ma l’approccio difensivo non piace a tutti. Fonti inglesi sentite dal Times hanno spiegato che il governo britannico pensa a raid mirati contro le milizie sciite in Yemen insieme agli Stati Uniti e a un altro Paese europeo.
Mercoledì alla Casa Bianca si è tenuto un incontro tra i membri del team della sicurezza nazionale per revisionare tutte le opzioni sul tavolo, inclusi attacchi contro gli Houthi. Per ora Biden non ha approvato operazioni offensive nell’area, ma la pressione per evitare altri incidenti che creino choc alla logistica globale aumentano.
Il fronte israeliano
L’inizio del 2024 ha consegnato all’amministrazione altri focolai di tensione. Il primo è quello del raid del 2 gennaio a Beirut in cui è stato ucciso il numero due dell’ufficio politico di Hamas, Saleh al-Arouri, il secondo è l’attentato in Iran al cimitero in cui è sepolto l’ex generale Qasem Soleimani costato la vita a un centinaio di persone. I due eventi infiammano il mondo sciita, dai pasdaran fino agli Hezbollah libanesi. Il rischio di un secondo fronte di guerra aumenta.
Per mesi Tel Aviv ha detto di essere pronta a combattere lungo due fronti, Gaza e il Libano e contestualmente ammassa truppe e tank lungo il confine con il Paese dei cedri, le IDF hanno anche fatto evacuare almeno 70 mila residenti dall’area e per settimane ci sono stati scambi di raid lungo il confine. L’Iran, ferito dall’attentato promette risposte, ma intanto tutta la cintura sciita è sotto pressione. Il 4 gennaio un drone americano ha colpito il quartier generale di una milizia sciita nel cuore di Baghdad uccidendo il comandante della brigata e scatenando le ire del governo iracheno.
L’equilibrismo di Biden
Per il momento Biden cammina sul filo del rasoio. Da un lato appoggia qualsiasi tipo di riposta di Israele dopo il 7 ottobre, dall’altro ha iniziato a chiedere prudenza a al governo di Netanyahu. Prudenza che lui stesso porta avanti nella gestione dei raid chirurgici americani tra Iraq e Siria. Non solo. Il 2 gennaio Washington e Doha hanno raggiunto un accordo per utilizzare per altri 10 anni la base di Al Udeid, in Qatar. Si tratta dell’installazione militare Usa più grande di tutto il Medio Oriente, che ospita più di 10 mila soldati americani.
La base è un hub fondamentale per l’America. Permette di compiere operazioni in tutto il Medio Oriente, dall’Afghanistan al Corno d’Africa, ma garantisce anche uno sguardo privilegiato sull’imbocco dell’Indo-Pacifico, il crocevia in cui gioca la partita con le ambizioni cinesi. L’accordo paradossalmente può essere un problema anche per Israele perché crea una sorta di schermatura sui leader di Hamas che si trovano nel Paese. Se da un lato la mossa serve agli Usa per puntellare la loro presenza nella regione, dall’altro aggiunge frizioni con Israele in un momento in cui a Biden servirebbe una de-escalation che rimane ancora un miraggio.