Giorgia Meloni inizia a mettere insieme i pezzi del confuso puzzle della prossima campagna elettorale. E lo fa seminando piccoli e grandi indizi durante le tre ore e cinque minuti di conferenza stampa di fine anno, per l’occasione – causa due rinvii il 21 e 28 dicembre – diventata di inizio anno nuovo. Sarà anche per questo, forse, che piuttosto che dedicarsi a un bilancio di quanto fatto, la premier sembra muoversi guardando in avanti e provando a disinnescare in anticipo quelle che inevitabilmente saranno le spine della partita che si giocherà in Europa in questo 2024: non solo una campagna elettorale con il proporzionale (quindi tutti contro tutti) destinata a durare fino alle elezioni del 9 giugno, ma anche la successiva trattativa per la nomina dei presidenti di Commissione e Consiglio Ue. Passaggio forse più delicato di quello nelle urne, visto che quasi certamente la Lega non seguirà Fdi e Forza Italia nel sostenere i candidati indicati da una inevitabile riproposizione della «maggioranza Ursula». Non un dettaglio, basti pensare che pochi giorni prima della crisi del Papeete che nell’estate 2019 portò alla fine del Conte 1, la rottura tra M5s e Lega si consumò proprio a Bruxelles sulla nomina di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione Ue: i 14 voti del Movimento furono decisivi, mentre il Carroccio votò contro.
Così, in quella che è la quarantasettesima conferenza stampa di fine anno (la prima con Giulio Andreotti nel 1977, proprio «l’anno in cui sono nata», sottolinea la coincidenza la premier) Meloni apre decisamente a una sua candidatura alle Europee, conferma che in ogni caso sarà impegnata in prima persona nella campagna elettorale, striglia il suo partito (prendendo spunto dall’incredibile vicenda del deputato pistolero di Fdi, Emanuele Pozzolo) e non lesina attacchi alle opposizioni (si dice pronta a un confronto tv con il segretario del Pd, Elly Schlein, e polemizza direttamente con due dei suoi predecessori, Giuseppe Conte e Paolo Gentiloni).
Il tutto con un’accortezza che non passa inosservata. Che i rapporti all’interno della maggioranza siano complicati – soprattutto tra Fdi e Lega – non è infatti un mistero. Eppure la premier ci tiene a non aprire fronti. Anzi, spiega che la decisione sulla candidatura alle Europee – che ministri e parlamentari a lei vicini danno per scontata da mesi – va «presa insieme» agli alleati. E già, perché se Meloni scende in campo, per Fdi – che punta al 30% – sarà un volano. E sia Salvini che Antonio Tajani dovranno decidere se fare lo stesso, circostanza che il giorno dopo il voto potrebbe cambiare gli equilibri all’interno della maggioranza. Soprattutto se venisse confermato il trend degli attuali sondaggi, che danno Fdi al 28%, con Lega e Fi ben sotto il 10%.
Meloni lo sa bene ed è uno stimolo in più a correre, anche in vista della delicata trattativa sui presidenti di Commissione e Consiglio Ue. Pur prendendola alla larga, infatti, citando il caso dei polacchi del Pis che cinque anni fa sostennero von der Leyen, ieri la premier ha di fatto confermato quella che per chi ha confidenza con la politica di Bruxelles è una ovvietà: il presidente del Consiglio di un Paese fondatore come è l’Italia – peraltro mentre è presidente di turno del G7 – non può chiamarsi fuori dall’elezione dei nuovi vertici delle istituzioni Ue. Questo, precisa Meloni, non significa «entrare» nella cosiddetta «maggioranza Ursula», perché si tratta di un voto sul governo dell’Unione e non di un’intesa in Parlamento.
La premier, insomma, si prepara ai prossimi cinque mesi di campagna elettorale cercando di sminare in anticipo il terreno. E lo fa tendendo una mano a Salvini anche sul delicato fronte dell’inchiesta Anas che ha coinvolto Tommaso Verdini. Una questione, dice, su cui «bisogna attendere la magistratura». Ma, aggiunge Meloni, «le intercettazioni fanno riferimento al precedente governo», quindi «Salvini non viene chiamato in causa» e «non ritengo che debba riferire in Aula».