Una domanda, tra le più insostenibili, ha governato l’opera, ormai cospicua, di Vincenzo Trione, uno dei massimi storici e critici d’arte italiani. Una domanda labirintica («che cosa è contemporaneo?»), la cui risposta non lo è meno: una risposta che si compone a sua volta di mille, nuove domande.
Per poter raccontare la propria non-estraneità a quello che accade nel mondo (chiamiamo «mondo» la somma di tutto ciò che accade), l’opera d’arte oggi non si pone, non si «colloca» nello spazio ma deve coincidere con tutto lo spazio, essere-spazio: lo spazio stesso è Opera, artificio: esso si fa, non si dà. L’arte oggi sembra voler mettere al bando, programmaticamente, ogni dimensione intima. Quella che continuiamo a chiamare intimità è una realtà elettronica, comunicativa, passa sui grandi schermi, si confonde con le leggi del mondo, con la moda, con i movimenti migratori…
Una specie di euforia da anfetamine ci tiene lontani da nebbie oscure, impossibili da illuminare. Ci facciamo bastare le esperienze immersive, i fake pieni di pathos. Bisogna poter fare tutto. Ma per poter fare tutto una è la condizione: avere già risolto prima di cominciare il 90% dei problemi. Esistono professionisti pagati per portare sul nostro tavolo problemi risolti: allora si può cominciare. Lo scopo di tutto questo sistema: produrre una specie di corrente, una rete lungo la quale indirizzare e far viaggiare i sogni del mondo, sacralizzare le indignazioni, normalizzare le «trasgressioni» fino a cancellare questa parola dal dizionario. Eliminare i confini, le date, digitalizzare Kafka, Dostoevskij, Van Gogh.
Ma perché l’incantesimo duri, perché la visione si compia è necessario eliminare ogni fruscio, ogni rumore di fondo. Il telefono continua a illuminarsi, ad accendersi di nomi, di numeri, ma non ha la forza di scandire un tempo, di definire un prima e un dopo: il mondo di fuori, che produce quelle luci intermittenti sul display, non ci raggiunge, la sua differenza non risulta persuasiva, lo smartphone è esso stesso un pezzo di sogno, di visione. È un mondo senza apparenti uscite.
Ma Trione, dopo aver attraversato tutto questo, decide di aprire una nuova porta, o meglio una nuova buca, una voragine dove questo mondo precipiti per potersi finalmente guardare, specchiare, riconoscere in forma di maceria, rudere, reperto futuro (ma niente distopie): occorre scendere davvero lungo «il muro della terra», e per farlo è necessario il compagno giusto, la guida, un Virgilio non d’occasione. Da questo viaggio Trione esce col suo libro più palpitante, imperfetto e bello: Prologo Celeste (Einaudi, pagg. 364, 36,00). E il suo Virgilio è, né potrebbe non essere, Anselm Kiefer.
Per scendere nel sottosuolo kieferiano Trione abbandona ogni tono cattedratico o trattatistico. Viaggia: da Milano a Barjac, nel sud della Francia, dove Kiefer ha stabilito il suo sterminato atelier. Qui non serve argomentare, è più che sufficiente guardare, e annotare: «… quando/ Amor spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando”. Per poter realizzare questo cammino d’amore è necessario rinunciare a tante cose: a parte delle proprie teorie, al proprio smartphone, alla propria agenda. La prosa di Trione qui si sminuzza, sono appunti senza verbo, annotazioni così rapide da non poter più essere poi riprese, sviluppate: perché con Kiefer lo sviluppo è già dato, è tutto in un «qui, ora» abbracciato dallo sguardo prima dell’artista e poi dello spettatore. La nota è come un flash pronto a catturare il passaggio istantaneo di un dio: il resto sono supposizioni, commenti, opinioni.
L’opera di Kiefer (e in qualche modo quella dello stesso Trione) scorre, in questo libro, come un immenso archivio del Presente, di un Presente messo finalmente alla luce nella sua forma autentica, quella di un reperto, perché in Kiefer tutto è «contemporaneo», la Sfinge come la guerra a Gaza, ma tutto è contemporaneo perché tutto è antico, sumerico, paleolitico, e l’atto supremamente creativo ha perciò anche l’aspetto di uno scavo archeologico: Kiefer creando «trova» trovando crea.
Tutto il Tempo, non solo una suo frammento, si riassume in questo archivio abitato più da dèi che da esseri umani. Non è che infine non se ne esca, a riveder le stelle: nessun artista contemporaneo ha riempito di stelle i propri capolavori più di Anselm Kiefer. Ma sono stelle-reperto, stelle di pietra, meravigliosi ritrovamenti. Dopo aver fatto precipitare il mondo contemporaneo (con la sua arte) nelle viscere della terra, Kiefer risale, è vero, ma l’impressione è che questa risalita non comporti uno sfondamento: i suoi cieli sono la parte più «dipinta» della sua immensa opera, perché – azzardo – la vera luce che investe il suo mondo non scende dall’alto ma, piuttosto, sale dal basso, è una luce che si sprigiona dalle voragini, come nello sconcertante Ritrovamento del corpo di San Marco, il capolavoro del Tintoretto – artista amatissimo da Kiefer.
L’Arte cambia volto, cambiano i protagonisti, le committenze, il mercato, ma un dilemma di fondo non potrà mai dirsi superato. Trione, innamorato di Kiefer, trova nella sua grotta il senso della contemporaneità nel momento in cui l’arte, con un atto supremo, se ne libera: come un grande, salvifico bagno in acque lustrali. Un bagno che non ci riporta però in un qualche «prima», non inaugura regressi salvifici, ritorni alle origini – perché alle origini non si «ritorna» mai, se non per metafora, se non per un come, al modo di Novalis, il quale descrisse la filosofia e il suo sforzo titanico nel senso di una nostalgia: la nostalgia di trovarsi ovunque come a casa propria.
C’è qualcosa che lega Kiefer a un suo grande conterraneo, W. G. Sebald, scrittore tra i miei più cari. Tutti e due affrontano la distruzione senza timore, tutti e due cercano dentro l’apparente morte i segni di una memoria viva, della sua architettura primogenitoriale: non mai resti, ma vita presente. Tutti e due cercano, come cercò Pasolini, una lingua più antica della modernità non per negarla ma per poterla raccontare, uno slancio angelico per poter dare conto del deserto, dell’inferno. In una splendida serie kieferiana dedicata ai calchi di Rodin, fiori nuovi crescono dentro i gessi che ospitarono sculture altrui. La creazione (e la distruzione, che è distruzione di una creazione) vanno raccontate creando. Il paradigma dell’arte è cristiano: Dio non modellò il mondo, lo creò, perciò raccontare il mondo in modo non fraudolento è possibile non tramite interpretazioni o resoconti, ma tramite un nuovo atto creativo. Siamo condannati a creare, questo è l’uomo così come Kiefer ce lo racconta nella sua immensa opera.
Esiste però anche qualcuno, come chi scrive, che pur ammirando sconfinatamente il genio di Kiefer non riesce a mutare questa ammirazione in amore spontaneo. Sono quelli che cercano nell’arte il sopraggiungere di cose non viste, di una grazia – inattesa forse allo stesso artista – che si compie così, quasi per caso (quasi, s’intende), come nel Ritratto dell’Infanta Margarita di Velázquez, dove la mano della bambina si trova accanto a un vaso di cristallo pieno di fiori bianchi gialli e blu, e un fiore sfatto giace lì accanto, bianco ed esausto, e questa congiunzione genera quasi dal nulla mille nuovi racconti, catene di amori e morti, forse tragedie.
C’è chi preferisce questo «trovarsi ad essere», dove la mano di Dio ci sorprende come quella dell’Infanta Margarita, e proprio per questo nasce in noi il pensiero (folle) che venga davvero da Dio – non un Dio dominatore della mente, non un ricapitolatore, ma un Dio amico delle capre, dei dementi, dei miserabili. C’è chi preferisce la grazia franta, spezzata che splende in Piero, in Raffaello, in Matisse, in Hockney, dove una foglia non sarà mai uguale a sé stessa, dove c’è un po’ di luce rubata al cielo, e dove il mondo, anziché riassumersi un un’unica visione, si rinnova di continuo in un albero, nel volgersi di una testa, in un verso di Auden.
L’arte è genio e grazia, dominio e resa, trionfo e fallimento. Ma il cuore di ciascuno pende fatalmente più da un lato o dall’altro. Qualcuno le chiamò «differenze antropologiche». Sono i due corni di un dilemma, complementari e incompatibili, che è poi il dilemma non solo dell’arte ma della nostra stessa vita, che si pone dentro una luce crepuscolare, così che a ciascuno di noi spetta decidere, in perfetta vertiginosa libertà, se quel crepuscolo sia la fine oppure l’inizio del giorno.