Per Giorgia Meloni sarà un 2024 a trazione esterna. Non solo perché da ieri ha preso il via la presidenza italiana del G7, il cui appuntamento clou sarà il summit dei capi di Stato e di governo in programma tra il 13 e il 15 giugno in Puglia, in Valle d’Itria. Ma anche perché proprio qualche giorno prima – tra il 6 e il 9 giugno – i 27 Paesi dell’Ue andranno alle urne per rinnovare il Parlamento europeo e ridisegnare gli equilibri delle istituzioni comunitarie, a partire da Commissione e Consiglio Ue. Non un dettaglio, non solo perché ormai Bruxelles è il crocevia di tutte le decisioni che contano, ma anche per gli inevitabili ricaschi sulla politica italiana. Per due ragioni in particolare. La prima: si vota con il proporzionale puro, quindi tutti contro tutti con buona pace delle logiche di coalizione per un voto che avrà evidentemente un valore di mid term per il governo. La seconda: le scelte sulle alleanze fatte in Europa potrebbero non essere indolori per la maggioranza, soprattutto se – come dicono tutti i sondaggi e tutte le proiezioni sulla composizione del prossimo Parlamento Ue – sarà confermato lo schema della «maggioranza Ursula», l’alleanza informale tra i popolari del Ppe, i socialisti di S&D e i liberali di Renew Europe che nel 2019 portò von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue. Al netto del recentissimo strappo sul Mes, infatti, è altamente improbabile che la premier di un Paese fondatore come l’Italia – peraltro nell’anno in cui è presidente di turno del G7 – possa chiamarsi fuori da una partita tanto decisiva (per ragioni simili, cinque anni fa anche i polacchi del Pis di Jaroslaw Kaczyski votarono von der Leyen). Mentre, da parte sua, Matteo Salvini ha già fatto sapere – e più volte – di essere indisponibile a sostenere qualsiasi accordo che comprenda i socialisti di S&D. Non proprio un dettaglio. Basti pensare che poche settimane prima dell’estate del Papeete che nel 2019 portò alla fine del Conte 1, la rottura tra M5s e Lega si era iniziata a consumare proprio a Bruxelles, con i 14 eurodeputati del Movimento che furono decisivi per eleggere von der Leyen mentre la Lega votò contro.
Insomma, comunque la si voglia mettere, il passaggio post elezioni europee non sarà indolore per la maggioranza. Anche perché in Europa un’intesa di centrodestra italian style è pressoché impossibile. Se il governo Meloni è sostenuto da Fdi (che milita nei Conservatori e riformisti di Ecr), Lega (Identità e democrazia) e Forza Italia (Ppe), proprio questi tre gruppi sono altamente incompatibili a Bruxelles. E non solo per il veto invalicabile del Ppe (che è a trazione tedesca) verso l’ultra-destra di Alternative für Deutschland che è destinata ad essere una delle componenti più numerose di Id.
E poi, neanche fosse un dettaglio, ci sono i numeri. Implacabili e – almeno di qui a sei mesi – suscettibili di variazioni minime. Secondo la proiezione del 30 dicembre di Europe Elects, uno dei principali aggregatori di sondaggi europei, se si votasse oggi Ppe e S&D resterebbero saldamente i primi due gruppi del Parlamento Ue. I primi con 179 seggi (+4 rispetto all’ultima rilevazione), il miglior risultato da quasi due anni. I secondi con 142 eurodeputati. La novità è al terzo gradino del podio, dove si colloca Id, la famiglia europea dove convivono il Rassemblement National di Marine Le Pen, i tedeschi di Afd, la Lega, il Partito per la Libertà austriaco di Herbert Kickl e il Partito per la Libertà olandese di Geert Wilders. Dopo aver scansato Ecr dal quarto posto, Id supera infatti anche Renew e oggi porterebbe a casa 93 seggi. E proprio i centristi-liberali (84 europarlamentari) sono il gruppo che questo mese ha subito la perdita maggiore. Al quinto posto, invece, Ecr con 81 seggi. Ma con un dettaglio. I Conservatori e riformisti di cui Meloni è presidente dal 2020, hanno infatti già chiuso l’accordo con l’Aur di George Simion (assente alle elezioni 2019 e oggi quotato in Romania intorno al 20%) e sono a un passo dal fare lo stesso con il Fidesz del primo ministro ungherese Viktor Orbán (che oggi conta 13 eurodeputati nel gruppo dei non iscritti). Due innesti che farebbero balzare Ecr direttamente al terzo gradino del podio.
Il punto, però, è che in tutti i sondaggi degli ultimi quattro anni e mezzo resta una costante: Ppe, S&D e Renew continuano ad avere una comoda maggioranza assoluta (oggi 405 seggi su 705) per riproporre, come accadrà, la «maggioranza Ursula».