Per i big del basket Usa blitz da 10 miliardi in Cina

Per i big del basket Usa blitz da 10 miliardi in Cina

Sport e politica. Un binomio strettissimo all’insegna del grande business anche tra l’Occidente e la Cina. Pecunia non olet: un concetto che i vertici dell’Nba, il campionato di basket più prestigioso e spettacolare del mondo, conoscono abbastanza bene. I primi a mettere in pratica questo principio sono tuttavia i giocatori, sempre più inclini a vendere la propria immagine a marchi meno famosi ma desiderosi di scalare la classifica. L’ultimo in ordine di tempo è Nikola Jokic, pivot dei campioni in carica Denver Nuggets. Il cestista serbo ha fatto scadere l’accordo con Nike per firmare un ricco contratto con i cinesi di 361 Degrees, multinazionale fondata nel 2003 in Fujian finora nota per essersi aggiudicata la fornitura delle divise ufficiali alle Olimpiadi di Rio.

L’intesa prevede che Jokic diventi l’atleta di punta del brand per ampliare la fama dell’azienda, che al momento può contare soltanto sull’esclusiva di altri due giocatori Nba: Spencer Dinwiddie dei Brooklyn Nets e Aaron Gordon, compagno di squadra di Jokic. Due mezzi-carneadi, per chi non è appassionato della palla a spicchi. L’altra peculiarità è la creazione di una scarpa personalizzata. «Sarà divertente, è come guardare una corsa di cavalli», ha commentato Jokic. Che, a proposito di scuderie, non è l’unico a essere rimasto stregato dal cavallo cinese. Il decennio scorso fu Dwyane Wade, tre volte campione Nba e storica guardia tiratrice dei Miami Heat, a rifiutare un generoso rinnovo con l’americanissima Jordan per approdare in Li-Ning, altro produttore cinese di calzature sportive con un logo che ricorda vagamente l’iconico swoosh Nike.

Una storia di successo che sempre più sportivi ora vogliono emulare. Non ultimo Jimmy Butler, leader indiscusso degli Heat di cui Wade è stato a lungo bandiera, anche lui passato a Li-Ning. Ma ecco che l’anno scorso l’agenzia delle dogane statunitensi ha bloccato l’ingresso negli Stati Uniti della merce Li-Ning, dopo che un’inchiesta ha accertato che l’azienda si serviva di manodopera in Corea del Nord. Una decisione preceduta dalla mossa del fondo sovrano della Norvegia, che a marzo 2022 ha escluso dal suo portafoglio di investimenti Li-Ning, coinvolta in «gravi violazioni dei diritti umani in Xinjang», la regione dov’è in corso la repressione del popolo uiguro. Anche 361 Degrees opera in Xinjang: nel 2021 è stato siglato un accordo con China Cotton Industry Alliance per l’uso del cotone coltivato in quel territorio. Infine, nel novero delle società di sportswear nell’arsenale di Pechino merita una menzione Anta, accusata come le altre di servirsi dei lavori forzati nei campi di detenzione in Xinjang.

Sebbene l’attenzione della politica statunitense non sia mai stata così alta lo stesso Congresso ha scritto una lettera al commissioner Silver per denunciare il giro d’affari con queste realtà ai giocatori non sembra importare. Men che meno alle squadre. Quando nel 2019 l’allora general manager degli Houston Rockets, Daryl Morey, pubblicò un’immagine pro Hong Kong, la reazione della Cina fu senza precedenti: niente più partite in tv e boicottaggio del campionato nel Paese.

Nel frattempo, Pechino e l’Nba si sono riavvicinate e secondo un’indagine di Espn del 2022 i proprietari delle squadre Usa avrebbero investito oltre 10 miliardi di dollari in Cina. È tornata la normalità. Dopo il blitz fallito nel calcio, le aziende del Dragone tentano l’assalto finale al basket. Conquistare asset occidentali può rivelarsi un obiettivo arduo per uno Stato poco incline al «soft power». Ma laddove non arriva la diplomazia, può tornare utile il denaro.

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