I grissini sono degli infallibili salva-vita, come i canarini in miniera che si sacrificano schiattando alla prima fuga di gas. Bisogna sempre tenerli d’occhio: quando la generosa dose di Torinesi presente sul tavolo sta per finire, vuol dire che è arrivato il tempo di una pausa. Una boccata d’aria. Una sosta di sopravvivenza. Una parentesi astemia fra le parole «concorso di distillati».
Il contesto è bucolico, come sottolineerebbero le pro Loco nei depliant turistici. Mombaruzzo è un grazioso paesino in provincia di Asti, mille abitanti a pochi km da Nizza Monferrato e una propensione per il buongusto. Oltre agli amaretti, la specialità del luogo è la grappa. Lo è anche grazie alla famiglia Berta, che dal dopoguerra distilla appena fuori dal centro abitato. E che in pieno centro, invece, gestisce il Relais Villa Prato, una dimora storica che per cinque giorni all’anno diventa anche il segreto buen retiro di alcuni oscuri giudici chiamati a decidere di questioni appena meno importanti delle guerre e dei diritti umani: ovvero quali siano i migliori liquori e distillati italiani.
È in questo quadro che, per qualche strano arabesco del destino, siamo seduti al tavolo della giuria, davanti a cinque bicchieri vuoti e una sputacchiera. Che è un oggetto disdicevole dalla funzione disgustosa, ma – si capisce presto – anche fondamentale. Sono le finali che decidono le «Ampolle d’oro», il massimo riconoscimento con cui un prodotto della storica e fiorente industria liquoristica italiana può entrare tra le pagine di «Spirito Autoctono», l’unica guida che dal 2021 censisce e recensisce i migliori elisir alcolici nazionali. Sono le finali e quindi non si scherza.
I concorsi dedicati agli spiriti sono infiniti e si tengono in tutto il mondo, ma questo è l’unico in Italia a sfociare in una sorta di «canone aureo». Il Torquemada supremo, che è anche direttore della guida, ha la barba da pope ortodosso e l’accento logudorese. Si chiama Francesco Bruno Fadda, è un druido sardo della buona cucina e del buon bere e di mestiere fa il giornalista, enogastronomico e non solo. È seduto a capotavola e detta i tempi delle votazioni. Attorno, una sporca dozzina di penne educate, nasi assoluti e palati fini, i giudici senza toga. C’è un bartender, c’è la più grande esperta italiana di gin; ci sono scrittori di vino, cantori dei cocktail, cultori del whisky. È il gotha degli esperti di beverage, così si dice oggi. E la cosa curiosa è che, con qualche sporadica eccezione, non sembrano neppure etilisti invetereati.
Ma come funziona un concorso di liquori e distillati? Semplice: i produttori partecipano mandando le bottiglie, quasi 800 referenze per essere precisi. Francesco e Lara (De Luna), con la loro squadra, le smistano alle commissioni regionali, che le assaggiano e le valutano. Quelle che ottengono i migliori punteggi arrivano in finale qui, in questa specie di tribunale fuori dal tempo e dallo spazio che somiglia a una versione alcolica della villa del Decamerone di Boccaccio. Ma senza le storielle zozze.
La mattina si inizia non troppo presto, perché non si può degustare a ridosso della colazione: il caffè è troppo invasivo, monopolizza il palato. Si procede per batterie e per categorie: grappe, amari, liquori, gin, vermut, bitter, altri distillati. Le bottiglie vengono avvolte da sacchetti di iuta che le rendono irriconoscibili, così si azzerano i pregiudizi sui marchi. Si versano 2 centilitri di prodotto, che quasi mai vengono tracannati in toto, ma va detto che qualcuno allergico ad avanzare anche la minima goccia di prezioso liquido c’è sempre.
La prima giornata si apre con gli amari. E qualcuno – che già ha partecipato nelle scorse edizioni e sa cosa ci aspetta – sospira. Perché gli amari sono impegnativi. Sono l’orgoglio della liquoristica nostrana, l’apice della tradizione monastica e del sapere contadino. Solo che berne uno dopo la cassoeula è un piacere, provarne 15 è più un dovere. Funziona così: i giudici annusano circospetti ma con il vigore di cocainomani di lungo corso; prendono appunti, poi fanno un sorsino; nessuno sputa, quantomeno a inizio lavori. Poi Francesco chiama il voto e per alzata di mano si decide se il candidato va ad Ampolla. Servono i due terzi delle preferenze. Un po’ come per cambiare la Costituzione.
Ora, che la giustizia sia questione insolubile lo si capisce al momento del verdetto, perfino qui. Perché ad ogni votazione segue dibattito, come nei cineforum impegnati di una volta. Se non c’è unanimità, ogni giudice ha a disposizione un’arringa – o «aringa», nello slang dei votanti – per provare a perorare la causa di un prodotto non premiato di cui chiede il riassaggio alla commissione. Ed è qui che la situazione si scalda ed emergono i nerd. C’è chi si infervora spiegando le peculiarità del monovitigno in una grappa ruvida e incompresa; c’è chi sostiene che un gin, seppur buono, non abbia le caratteristiche per essere definito «London dry» e dunque vada punito; c’è il fondamentalista spietato che scova imperfezioni di distillazione ovunque e quello che combatte una crociata purista contro il caramello e l’eccesso di zuccheri con la fiera ostinazione di un Don Chisciotte etilico. Un turbine di pareri e battute, osservazioni taglienti e competenze infinite in cui ci si diverte, sì, ma in cui la professionalità è maniacale.
Succede ad esempio che al tavolo si scherzi. Si citano gli «amari punitivi» di uno sketch di Natalino Balasso, si indugia in sprazzi di vaudeville tipo «Questo amaro ha un suo perché. Tipo perché ho voluto berlo?», e così via. Però non si svacca mai. Le sigarette, per esempio, sono circoscritte a determinati momenti della giornata, lontane dalle sessioni di assaggio. Così come le discussioni sui prodotti, anche accese, non trascendono mai nella soggettività. Perché questo è l’aspetto più difficile da cogliere dall’esterno: non è questione di «like» come sui social, a nessuno interessano i volubili gusti personali. Qui si giudica in base a canoni semi-oggettivi: la persistenza, l’intensità, la pulizia, l’aromaticità, il rispetto delle materie prime, l’aderenza al territorio di produzione. Ci sono giudici che vedono la grappa come kriptonite ma sanno distinguere l’eccellenza di una barricata e odiatori accaniti dell’anice che premiano convintamente un Sassolino modenese. Serietà oltre il sacrosanto, creativo cazzeggio.
Con il passare delle ore, le sputacchiere, a malincuore ma per necessità, si riempiono, i grissini finiscono. E i taccuini si riempiono di «note di degustazione» sempre più creative. Vengono messe a referto note di «tisana annacquata», «cherosene», «compost», «baita di montagna», «sapone ai frutti rossi», persino «tiramisù ai funghi». No, nessuno è ancora alticcio. È soltanto la memoria sensoriale che fa il suo corso. Si cerca nelle esperienze passate qualcosa che ci ricordi i profumi di quel prodotto. Di cosa sa questo bitter? Quand’era l’ultima volta che abbiamo avvertito quel profumo di frutta, erbe o spezie? Lo spirito di Proust e delle sue madeleine siede al tavolo con noi. E anche lui storce il naso quando dalle cucine al piano superiore inizia a diffondersi l’aroma, paradisiaco ma invasivo, dei tajarin al ragù.
La giornata volge al termine. Le prime Ampolle sono state assegnate e i giudici, che reclamano un’abbondante dose di Soluzione Schoum, possono dirsi soddisfatti del loro lavoro: 41 assaggi posson bastare, è tempo di scambiare qualche opinione generale. Qualità mediamente alta, gin solidi ma ancora esageratamente eccentrici, grappe in costante miglioramento, amari sempre un po’ troppo carichi di zuccheri tanto da far bofonchiare qualcuno che tanto vale cambiar loro il nome e chiamarli «dolci».
Sono fatti così, i giudici di distillati. Ironici, pignoli, adorabili specialisti che sanno non prendersi sul serio. Severi, però decisamente meno cattivi di quello di De André. Sarà perché il cuore ce l’hanno più vicino al fegato che ad altro…