Finalmente è finito: il 2023 per Israele è stato un anno che ha cambiato il corso della storia, niente di ciò che era sarà. Si può paragonarlo al 1948, al 1967, al 1973, in cui guerre fondamentali decisero della vita di Israele e ne cambiarono il carattere. Crearono inventività, resistenza e anche presunzione. Ma nulla ha travolto l’epos, il carattere del Paese come il 7 di ottobre. Tutto è ancora da scrivere: come e quando finirà, torneranno gli ostaggi, quanti morti avremo? Hamas verrà distrutta? Nessun anno ha mai avuto le conseguenze di devastazione e anche di valore che ancora si scoprono. L’israeliano medio è protagonista di un film di cui non conosciamo la fine. L’Annus orribilis si è concluso, ma siamo nel mezzo di una tempesta che scuote la nave; la sicurezza costruita dopo la maggiore delle persecuzioni, la Shoah, è in dubbio. Anche l’antisemitismo occidentale insieme ai nemici mediorientali è una terribile sorpresa.
Israele prima del 2023 non immaginava che Hamas sarebbe andata oltre gli attacchi terroristici; non sapeva che avrebbe in massa macellato famiglie, bambini, ragazze, fino a 1400 vittime. La tecnologia, la medicina, la forza dei Patti di Abramo avrebbero funzionato da deterrente. Israele si era illuso di annebbiare i palestinesi, l’Iran, i suoi proxi. Tutti hanno sbagliato: Netanyahu che pensava di combattere a basso volume ignorando che l’ideologia è più inebriante della politica, Yeir Lapid che ha stretto un patto con gli Hezbollah sul gas nel Mediterraneo. Il governo ha valutato il prossimo patto coi sauditi più che l’aggressività dell’Iran coi sui servi Gaza, Libano, Irak, Siria, Yemen. Israele nel 2023 fino a novembre era tutto nel suo scontro superdemocratico: da una parte la riforma della giustizia sostenuta duramente dal governo di Netanyahu e dall’altra manifestazioni estreme, blocco di autostrade, ospedali, aeroporto. Tutti ciechi, ignari dei rischi. Adesso, potrebbe riaprire ferite gravi il voto di ieri, 8 a 7, dei giudici della Corte Suprema per cancellare la parte della riforma già votata. Ovvero, i giudici tornano a decidere con parere insindacabile «la ragionevolezza» di una legge, senza un parametro come la costituzione. Si rischia lo scontro politico rinnovato. Vedremo: è un fuoco in un cespuglio, ma c’è la guerra.
Il 7 di ottobre ha cambiato tutto: il Paese non è ancora pronto a spaccarsi di nuovo, come i media o i politici. I soldati combattono insieme. A suo tempo quando piloti e riserve contro la legge minacciarono di non presentarsi a combattere, Hamas guardava. Ora tutte le riserve hanno un messaggio: combattere insieme. Il 7 di ottobre è stato uno tsunami: stupri, decapitazioni dei bambini e le sfibranti trattative sui rapiti, la sofferenza delle famiglie. Le centinaia di migliaia di sfollati, l’incertezza del fronte nord con gli Hezbollah, e persino una guerra globale con l’Iran all’orizzonte.
Le domande bruciano: perché gli avvertimenti non sono stati ascoltati dalla sicurezza, dai politici? Dov’era l’esercito? Perché gli elicotteri non hanno sparato? E come mai l’Onu non ha condannato? Perché Putin aizza il Consiglio di Sicurezza? Intanto si è consolidato il rapporto fra Israele e Biden, grande amico: pretende aiuto umanitario, ma insiste sul diritto all’autodifesa. Israele ha pazienza nonostante 170 soldati siano morti in battaglia. Ragazzi e ragazze feriti in guerra, come i sopravvissuti dei kibbutz, vogliono combattere e vincere per tornare alla vita: destra e sinistra, religiosi e laici. Sarà forte nel 2024 il tema delle responsabilità del Governo, e così deve essere, con una commissione d’inchiesta e le elezioni. Persino le famiglie dei rapiti, che vogliono subito lo scambio, alla fine vogliono combattere. Il Nyt ci ha messo tre mesi ad accettare che gli stupri omicidi erano un’arma di massa. Forse però questo segnala una fase di verità sull’obiettivo della guerra: Hamas deve essere sconfitto, contro i terroristi e i movimenti integralisti islamici, ovunque. Il 2024 sarà ancora un anno di guerra per tutti.