Il «nuovo» Marcell Jacobs ogni mattina apre la porta di casa e s’immerge in un mare verde. È un campo di golf. Lo sport che cammina e non corre. Jacksonville, Florida, c’è un villaggio tranquillo che pulsa serenità, la second life di Marcell inizia da qui, a due passi dal quartier generale del nuovo allenatore, il guru Rana Reider, che ripete «vedrete, a Parigi 2024 Jacobs farà meglio che a Tokyo 2021».
Marcell, tu hai strappato al grande pubblico degli appassionati una frase precisa: Non pensavo avrei mai visto un italiano vincere l’oro nei 100 alle Olimpiadi».
«È vero. Perché nessun italiano era mai riuscito ad entrare in una finale olimpica dei 100. Ma arrivavo in grande forma da una super stagione. E quella frase era stata detta anche a me tante volte…».
Il tuo mantra è sempre lo stesso: «Mai accontentarsi».
«Sono sempre stato una persona che si mette in gioco, spingendosi oltre. Quando finisce un percorso, ne comincia un altro».
Una filosofia adottata fin da giovanissimo.
«Ho sempre faticato tanto. All’inizio non ho portato a casa grandi risultati. Ho sofferto. Tanti infortuni. Ma poi con il lavoro gli obiettivi sono stati centrati».
È una strada piena di sacrifici.
«Ma è una strada obbligata: bisogna lavorare tanto e poi da un momento all’altro, quasi come fosse per magia, arriva il risultato. Ma, in realtà, dietro ci sono anni di impegno, fatica e sudore».
Hai un tono di voce sereno. Lo sei anche interiormente?
«Vivo una sensazione di pace assoluta. Sono riuscito ad entrare in una modalità ideale in cui faccio casa-campo e campo-casa e sono felice. A casa e sul campo va tutto bene. In questi due mesi con i compagni e l’allenatore si è creata un’alchimia perfetta. Se chi parla con me percepisce questa mia calma, mi fa piacere: è esattamente il mood in cui sono».
Ma non è sempre stato così. Il mostro della depressione ha sfiorato anche te come Noah Lyles?
«È stato un anno difficilissimo, ho assaggiato questa brutta sensazione. È accaduto quando stavo preparando la stagione all’aperto e sono arrivati i primi problemi, i primi fastidi, non poter gareggiare».
Togliere le gare a uno sprinter è come staccargli l’ossigeno.
«Ogni atleta si allena per gareggiare e io in particolare gareggerei un giorno sì e un giorno anche. Non poterlo fare è stato frustrante. Noi viviamo di questo e, nel momento in cui hai dei problemi in pista, questi problemi te li porti anche al di fuori. Ogni cosa diventa pesante e difficile. Ci si infila in un tunnel, si vede tutto scuro, è buio, un tunnel senza luce».
Ma la gente vede che i risultati non arrivano e critica.
«Le persone che fino a poco prima ti esaltavano, ti gettano nella polvere. È un mondo difficile in cui bisogna essere forti, cercare di isolarsi e ritrovare le energie per risollevarsi».
Quanto è durato il «buio»?
«Da maggio ad agosto, ed è stato durissimo. L’ho purtroppo dovuta assaggiare per bene questa brutta esperienza. Non è stato facile. Ma poi ne sono uscito. Ho combattuto. Non è la prima volta che mi trovo in situazioni difficili… È stato importante il solo fatto di essere poi tornato alle gare, ai Mondiali di Budapest, anche se non è andata come avrei voluto».
Hai deciso di cambiare un allenatore amico, Paolo Camossi.
«E tale è rimasto. Non è stata una scelta facile, tra noi c’è un rapporto al di là di quello allenatore-atleta che si era cementato negli anni. Insieme abbiamo vinto tanto, comprese le Olimpiadi. Ma ero arrivato a un punto in cui non sentivo più determinati stimoli, quelli fondamentali per allenarmi e performare come volevo. Avevo bisogno di un nuovo gruppo di lavoro».
Esattamente?
«Di compagni con cui spronarci a vicenda per dare anche quello 0,5% in più che però fa tanta differenza. Non senti più le gambe dalla stanchezza ma vedi l’altro che va avanti e questo ti dà forza per non mollare… Volevo un po’ cambiare tutto, dopo un anno così, volevo isolarmi il più possibile, vivere in un posto in cui nessuno mi conosce o sa chi sono, pensando solo a pista e casa».
Anche a costo di forzare un po’ la «generosità» del tuo carattere.
«Tutti mi conoscono come una persona molto altruista che pensa prima agli altri che a se stesso. Io sono felice quando gli altri sono felici, ma questa volta sapevo che dovevo pensare anche a me, per questo ho preso la decisione di stravolgere l’esistenza. Una scelta difficile perché ha significato spostare la famiglia dall’altra parte del mondo. Un mondo nuovo che non conosco, una lingua che non mastico benissimo, un allenatore nuovo, compagni nuovi. Però questo mi ha dato energia positiva».
Ora vivi in un quartiere all’interno di un immenso campo di golf.
«Il golf è completamente l’opposto del mio sport: devi essere molto calmo. Ti porta a una pace interiore e a stare tanto tempo con te stesso. Anche per questo ho preso casa qui. Esco dal giardino e ho attorno solo gente che gioca a golf. Mi affascina, mi sono iscritto, adesso devo solo trovare il tempo…».
Il capitano azzurro, Gimbo Timberi, parlando davanti al presidente della Repubblica ha «protetto» tutti gli atleti della nazionale dall’«eccesso di critiche», sentendo il bisogno di sottolineare che «anche noi siamo umani».
«È un discorso che mi ha toccato. Anch’io vorrei fare un record in ogni gara, battere sempre tutti. È il sogno di ogni atleta. Ma è impossibile. Siamo umani appunto, non macchine. E abbiamo bisogno del supporto delle persone che ci seguono».
Invece che cosa scrivono?
«A volte mi capita di leggere dei commenti che dicono: Ma no, io dico o scrivo così perché voglio spronare quell’atleta…. Ma gli attacchi, dai e dai, possono far male, anche perché la psicologia degli atleti è particolare. Ciò che uno scrive su una tastiera può arrivare come un macigno che ti schiaccia magari in un momento per te già difficile».
Nella tua Jacobs Academy insegni anche a difendersi da tutto questo?
«I social sono uno strumento che per i giovani può essere utilissimo, ma che può anche distruggere. Ormai si mostra ciò che piace, non quel che si è veramente. L’ho provato sulla mia pelle. Ai ragazzi cerco di far capire che bisogna avere pazienza, ognuno ha il proprio ritmo. Se uno arriva prima di noi in un qualsiasi campo o appare meglio di noi, non significa che noi valiamo di meno… vuol solo dire che non è ancora arrivato il nostro momento. Io a 15-16 anni non arrivavo neppure tra i primi 10 del campionato italiano, ma poi ho vinto l’Olimpiade».
La carriera di Jannik Sinner presenta analogie con la tua: criticato per aver saltato la fase a gironi di Davis, ma poi ci ha fatto vincere la coppa. Elogi e critiche che si sovrappongono senza coerenza.
«La gente crede che noi dobbiamo essere sempre pronti a far tutto, senza pensare a quello che il nostro corpo ci dice. Ma noi lavoriamo con il corpo e conosciamo bene i segnali che ci manda. Capisco quindi Sinner. Ed è brutto che fino a pochi mesi fa ci fossero attacchi contro di lui. Ma poi quando sono arrivati i trionfi in Davis è cambiato tutto. È questo che io tante volte faccio fatica a capire. È triste, però fa parte del gioco».
C’è una cifra che ti «perseguita»: 9,58 (il tempo del record del mondo di Bolt). La vedi ovunque, anche sul display della sveglia…
(Ride) «Mi capita spesso di vedere quel numero magico. Prima era l’orario in cui portavo i bambini all’asilo, ora accade quando vado al campo di allenamento. Tiro fuori il telefonino e lo metto nello zaino. Noi cominciamo l’allenamento alle 10 in punto, quindi quando guardo l’orario per l’ultima volta segna 9.57 o 9.58. Quando segna 9.57 sono più contento perché equivarrebbe a battere il record mondiale sui 100 di Bolt. È divertente. Chissà, potrebbe essere un segno del destino…».
In Italia eri molto attento all’abbigliamento, come va in America?
«In Italia le persone curano molto di più degli americani l’aspetto nel vestire. Qui il mio outfit giornaliero è molto cambiato: tuta per andare al campo, tuta per stare a casa e tuta per andare al supermarket».
Come sono i tuoi compagni di allenamento?
«È bello lavorare in gruppo. È fondamentale l’incoraggiamento nel momento in cui le gambe non si muovono più. Tra i miei compagni c’è Trayvon Bromell: ha fatto un’operazione 4 mesi fa e ora sta recuperando, ma quando fa qualche accelerazione è quasi imbarazzante la facilità con cui riesce a sprigionare potenza e velocità. Però sento di avere qualcosa in più e che allenandomi così bene potrò sfruttare tutti i cavalli che ho. Non vedo l’ora di iniziare a gareggiare».
Hai definito «geniale» Reider. In cosa consiste la sua genialità?
«Geniale è il modo in cui ti spiega gli esercizi. Lui sa che per correre forte i 100 metri la partenza è fondamentale e poi c’è la fase lanciata. Quindi tutto ciò che facciamo è in funzione di questi due movimenti. Rana non dice fai questo esercizio e basta, ma ti fa capire come l’esercizio servirà in un determinato momento della corsa per sprigionare a pieno l’esplosività».
Ad ascoltarti, sembra proprio che negli Usa ti sia ritrovato come uomo e atleta.
«È come aver riallacciato quella parte di me che non avevo vissuto. E sento che ho ancora tanto da dare, sento il corpo che lavora benissimo. Correre sotto i 9”80 non si fa schioccando le dita, ma se continuo così sono convinto che potrò migliorare ancora tanto e far meglio di Tokyo».
Tra i «richiami delle origini» c’è anche la relazione problematica avuta da piccolo con tuo padre. In che modo stai facendo tesoro di quella esperienza nel rapporto con i tuoi figli?
«Io mio padre fondamentalmente non l’ho mai visto. Non l’ho mai vissuto: avevo 8 mesi quando sono andato via dagli Usa per venire in Italia. L’ho rivisto una volta per due giorni che avevo già 12 anni e poi non l’ho mai più incontrato. Ai miei figli cerco di trasmettere il valore della vita, l’importanza di essere delle brave persone, altruiste. Coltivando i sogni. E battendosi per realizzarli».