Guerra chiama altra guerra. Quando una parte del mondo cade in una spirale di instabilità, in un’altra parte c’è chi prova ad approfittarne. A volte cogliendo il minore interesse mediatico suscitato da un attacco, altre volte invece investendo sull’effetto sorpresa per ottenere con la forza determinate rivendicazioni politiche. Non è un caso quindi se nell’ultimo biennio è stato un susseguirsi di crisi, di conflitti e di scontri armati. E il mondo, nell’anno che sta per arrivare, dovrà tenere conto delle seguenti situazioni di guerra.
La guerra in Israele
Scoppiata con l’azione terrorista di Hamas del 7 ottobre scorso, con i miliziani per la prima volta spinti fino a occupare temporaneamente parti del territorio israeliano, la nuova crisi in medio oriente rappresenta ad oggi il perno attorno cui ruotano altre tensioni nella regione e non solo. Dopo gli assalti di Hamas, Israele ha reagito prima con un’intensa azione di bombardamento sulla Striscia di Gaza e, successivamente, intervenendo con un’azione di terra.
Al netto delle tregue in fase di negoziazione, le quali dovrebbero prevedere il rilascio di parte degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas, lo stato di guerra in Israele dovrebbe perdurare ancora per diversi mesi. I principali combattimenti riguardano Gaza City e Khan Younis, con l’Idf che prova a scovare i leader di Hamas nei bunker sotterranei in cui hanno sede i centri di comando dell’organizzazione. I morti civili si contano a migliaia, con l’Onu che ha anche lanciato allarmi per la situazione umanitaria nella Striscia.
Lo stallo in Ucraina
Ovviamente l’altra grande area di crisi riguarda l’Ucraina. Da diverse settimane non si registrano sul campo grandi mutamenti territoriali, con le forze di Kiev e le forze di Mosca oramai contrapposte in una vera e propria guerra di attrito. L’Ucraina ha fermato la sua controffensiva, la quale non ha sortito gli effetti sperati dalla propria leadership. Dall’altra parte però, la Russia non è riuscita a guadagnare molto terreno nei vari fronti in cui ha attaccato.
Nel 2024 è lecito attendersi novità a ridosso della primavera, quando le condizioni climatiche potrebbero favorire nuovi attacchi. L’impressione è che, in questo lasso di tempo, l’Ucraina proverà a far appianare le divergenze interne sorte tra la dirigenze politica e quella militare. Nel frattempo, Kiev proverà anche a mettere sul campo le nuove armi girate dall’occidente e a schierare i soldati addestrati all’estero. La Russia dal canto suo, proverà nei prossimi mesi a sfruttare il proprio materiale bellico per giungere a nuove possibili conquisti territoriali. Appaiono ridotte le possibilità di una mediazione diplomatica, almeno nel breve termine.
La tensione nelle acque dello Yemen
Nello Yemen non si combatte da diversi mesi grazie all’accordo siglato tra l’Arabia Saudita e gli Houthi, a sua volta figlio dell’accordo tra sauditi e iraniani stretto con la benedizione e supervisione della Cina. Tuttavia, i postumi di quel conflitto oggi appaiono come potenziali cause scatenanti di una delle crisi più importanti da tener d’occhio nel 2024. Gli Houthi infatti continuano, così come accade da dieci anni a questa parte, ad avere il controllo della capitale Sana’a e di una vasta zona del Paese.
Sciiti, del ramo zaydista, e vicini all’Iran, gli Houthi dopo lo scoppio della guerra nella Striscia di Gaza hanno da subito minacciato di colpire interessi israeliani e occidentali nello stretto di Bab El Mandeb. Nello specchio d’acqua cioè che divide la penisola arabica dal Corno d’Africa e dove l’Oceano Indiano confluisce nel Mar Rosso. Un’area quindi da dove transitano le navi dirette verso il Canale di Suez e il Mediterraneo. I miliziani sciiti hanno mantenuto la promessa: diverse navi sono state sequestrate oppure attaccate. Gli Usa hanno annunciato una coalizione volta a pattugliare l’area. Senza navigazione nelle acque dello Yemen, si rischia la paralisi del commercio internazionale. Le tensioni nella zona sono destinate a proseguire per i prossimi mesi.
Il braccio di ferro tra Venezuela e Guyana
Le ultime notizie sembrano far allontanare un conflitto diretto tra le forze armate del Venezuela e quelle della Guyana. Ma le tensioni per il controllo della regione nota con il nome di Guyana Essequibo proseguiranno ancora per lungo tempo. Negli ultimi mesi del 2023 infatti, il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha annunciato l’intenzione di rivendicare la regione contesa. La questione per la verità è datata al XIX secolo, ma è ritornata sulla scena nell’ultimo decennio. Da quando cioè, soprattutto nello specchio d’acqua antistante la regione, sono stati scoperti numerosi giacimenti petroliferi.
A dicembre, i presidenti di Venezuela e Guyana si sono incontrati con la mediazione della comunità degli Stati latini e caraibici. Maduro da un lato e Irfaan Ali dall’altro hanno promesso di non ricorrere alle armi per risolvere la disputa. I dissidi però rimangono e i rispettivi eserciti sono posti in stato di allerta. Con il Brasile che già a novembre ha inviato truppe nelle aree di confine.
La guerra civile nel Myanmar
I combattimenti nel Paese asiatico sono in corso da due anni, da poco dopo il golpe che ha ridato alla giunta militare il totale controllo del governo. Ma solo negli ultimi 12 mesi la guerra civile nel Myanmar ha subito importanti svolte. E ulteriori evoluzioni potrebbero arrivare nel 2024, soprattutto per via della difficoltà dell’esercito regolare di tenere il controllo del territorio.
Contro i militari infatti si è creata una coalizione politica e paramilitare che ha come obiettivo il rovesciamento dell’attuale regime. Della coalizione fanno parte il partito di Aung San Suu Kyi, la nota dissidente più volte incarcerata dalla giunta militare, così come i vari componenti del governo di unità nazionale rovesciato dal golpe del 2021. A questi si aggiungono poi le varie fazioni combattenti sparse per il Paese, gruppi che in alcune occasioni rappresentano anche minoranze perseguitate dalla giunta.
L’esercito controllerebbe ad oggi solo il 45% del Myanmar e ha nell’ex capitale Yangoon la propria principale roccaforte. L’attuale capitale Naypyidaw potrebbe invece essere circondata nelle prossime settimane, per via dell’avanzata dei ribelli sia da est che da sud. A incidere sulle sorti della guerra potrebbe essere anche la posizione della Cina, da sempre legata da diversi interessi economici al Myanmar.
L’avanzata islamista nel Sahel
Si continua a combattere anche nel Sahel. Nell’estate scorsa si è andati molto vicini a un conflitto armato tra diverse coalizioni di Paesi dell’Africa occidentale dopo il golpe in Niger. La guerra poi è stata evitata, con l’Ecowas (l’organizzazione degli Stati dell’Africa occidentale) che ha scelto di non usare le maniere forti per ripristinare il governo del deposto presidente nigerino.
Tuttavia la regione è ugualmente costretta a fare i conti con la violenza. Nello stesso Niger, in Burkina Faso ma soprattutto nel Mali è sempre più forte la pressione dei gruppi jihadisti. Si tratta di sigle sempre più radicate nel territorio, in alcuni casi affiliate ad Al Qaeda e in altri invece all’Isis. L’esercito del Mali, al potere con il generale Assimi Goita dal golpe del 2021, è stato il primo nell’area del Sahel a chiedere aiuto ai paramilitari russi della Wagner. Al momento però non riesce a frenare l’avanzata jihadista. Nei giorni scorsi, governo ed esercito hanno annunciato la riconquista della città di Kidal in mano a un’altra forza attiva nella regione, quella dei Tuareg. Contestualmente però, altre aree come quella di Timbuktu risultano assediate dagli islamisti.
Il conflitto mai domato in Siria
Da tenere in considerazione anche la guerra in Siria, giunta quasi al suo tredicesimo anno di vita. Si tratta di uno dei conflitti più longevi della storia recente, anche se molti analisti lo considerano oramai a bassa intensità. Si combatte in effetti sempre di meno e le posizioni delle varie parti impegnate in guerra appaiono consolidate. Il presidente Bashar Al Assad con l’esercito regolare controlla i due terzi del Paese e tutte le principali città: la capitale Damasco, Aleppo, Homs, Hama, Latakia e Tartus. L’area orientale, comprendente le regioni a est dell’Eufrate, è in mano alle forze curde dell’Sdf. La provincia di Idlib è invece controllata dai gruppi islamisti e da sigle filoturche.
Il governo è appoggiato dalla Russia e gode del supporto di Iran ed Hezbollah. I curdi invece sono più vicini agli Usa, mentre l’influenza turca è garantita dai gruppi che rispondono alle forze di sicurezza di Ankara in funzione anti curda. Alla luce del conflitto in Israele, la guerra in Siria può essere rappresentata come una polveriera pronta a esplodere: essendo qui impegnati tutti i principali attori internazionali e regionali, potrebbe bastare una miccia per far saltare tutti gli attuali equilibri.
La guerra dimenticata del Sudan
Dallo scorso aprile un altro Stato africano non ha più trovato la via della pace. Il Sudan infatti è nuovamente scivolato nella spirale della violenza dopo il tentato golpe promosso dalle Rsf (Forze di Supporto Rapido) guidate da Mohamed Dagalo. Il colpo di Stato aveva come obiettivo il rovesciamento dell’attuale generale e presidente, Abdel Fattah al Burhan. Le due forze da allora continuano a combattersi. Nessuno al momento è riuscito a prevalere sull’avversario e lo stallo sta creando notevoli problemi umanitari. A Khartoum così come nel Darfur, dove sono tornati gli spettri del genocidio attuato a inizio secolo dai janjaweed, la situazione è prossima al collasso.
Il dossier Libia
Anche la Libia può essere inserita nel novero dei Paesi impelagati in guerre mai del tutto domate e che però, da un momento all’altro, rischiano di tornare a galla con tutto il loro carico di tensione. Attualmente la disputa principale riguarda il confronto tra il governo di Tripoli, riconosciuto a livello internazionale e sostenuto tra gli altri da Usa, Italia e Turchia, e il generale Khalifa Haftar. Tra le due parti vige un tacito accordo, capace di evitare al momento altre escalation di violenza ma che non sta avviando il Paese verso una definitiva stabilità.
Gli Usa premono per una pace duratura, la Russia corteggia Haftar per avere una base navale in Cirenaica. L’Italia, dal canto suo, spera di convincere le parti a ridare spazio a un vero processo di riunificazione nazionale. In ballo per Roma ci sono due interessi prioritari: crisi migratoria ed energia.
Taiwan e l’area del Pacifico
Un conflitto armato vero e proprio tra Pechino e Taipei al momento appare lontano. Ciò non toglie però che nell’area attorno Taiwan le tensioni anche nel 2024 sfocino in pericolose provocazioni. La Cina, per bocca del presidente Xi Jinping, ha sempre dichiarato di rivolere l’isola entro il 2049 ma già da adesso considera la presenza Usa nell’area come una minaccia alla stabilità e alla pace. Al tempo stesso, Washington assicura il massimo sostegno a Taipei in caso di nuove esercitazioni cinesi a largo dell’isola.
L’impressione è che le tensioni su Taiwan già oggi incidano molto sull’area del Pacifico e sul posizionamento delle varie forze sul campo. Con Usa e Cina che si confronteranno a distanza anche per i prossimi dodici mesi.
Tensioni tra le due Coree
Sono molto lontani i tempi in cui i leader di Corea del Nord e Corea del Sud si incontravano stringendosi la mano e proclamando un allentamento delle tensioni. Scenari di appena cinque anni fa, quasi del tutto cancellati in vista del 2024. Negli ultimi mesi si è assistito a reciproci scambi di accuse e all’annuncio della sospensione degli accordi del 2018.
Pyongyang ha lanciato nuovi missili balistici, Seul ha annunciato nuove esercitazioni con gli Usa: il risultato è che a nord del confine che corre lungo il trentottesimo parallelo torneranno, entro i primi mesi del nuovo anno, reparti e mezzi speciali dell’esercito nordcoreano. Uno scenario che non sarà così dissimile anche nella parte meridionale della frontiera.