Eugenio Riccomini, angelo della critica

Eugenio Riccomini, angelo della critica

Il funerale dello storico dell’arte Eugenio Riccomini, morto a Bologna a 87 anni il giorno di Natale, si terrà oggi nel capoluogo emiliano-romagnolo. La camera ardente sarà allestita dalle 10 alle 17,30 nella sala dello Stabat Mater dell’Archiginnasio, in piazza Galvani 1. Era un maestro. E aveva capito, oltre all’arte, la vita. Per questo non aveva bisogno di una cattedra, dello spazio di un’aula o di un teatro, dove pure raccontò il suo sogno dell’arte. Voleva stare davanti ai quadri, alle sculture, in quel corpo a corpo che consente il lavoro privilegiato del Sovrintendente. E quei corpi, quelle tele, quelle tavole, quelle terrecotte, quei gessi, quei marmi erano come persone, amici, compagni, parenti. Con cui parlare e di cui parlare.

Questa era la condizione ideale e naturale di Eugenio Riccomini. Parlarti di loro davanti a loro. Passeggiare, entrare nelle chiese di Venezia, di Bologna, di Ferrara, di Parma, accompagnato da un collega, un compagno, un figlio. Questo rapporto confidenziale, affettivo e affettuoso con le opere d’arte era la sua vita. Stare su un’impalcatura davanti al Giudizio Universale della Cattedrale di Ferrara. Non aveva allievi, ma amici, compagni occasionali di lavoro odi missioni, sopralluoghi in cantieri o nei laboratori dei restauratori. Eugenio arrivava da Ottorino (Nonfarmale, il restauratore), ed era festa. Io l’avevo intravisto negli anni dell’Università con Francesco Arcangeli nell’Istituto di storia dell’arte, dove mi sarei come lui laureato con Carlo Volpe, e dove stavano studiose devote come Vera Pietrantoni Fortunato, Anna Maria Matteucci, Daniela Scaglietti, Nora Clerici Bagozzi, Mara Angela.

C’era molta concentrazione ma quando arrivava lui era felicità. Bastava l’immancabile farfalla per allontanare la polvere, ed erano il suo gioco, il suo divertimento, il suo sorriso a restituire alla vita le pagine dei libri. Così diverso, così libero, lo ritrovai, poco dopo la laurea, superiore collega a Parma, mentre io entravo come ispettore nella città da cui lui era partito, Venezia. Era appena morto Arcangeli, e in quei tempi era difficile muoversi lievi in quel mondo così severo. A lui e a me fu concesso.

Il vero incontro, dopo Bologna e Venezia, fu a Parma, quando un istituto bancario ci volle insieme a presentare un suo libro, dal titolo insolito e nel luogo più insolito. Nel Duomo di Parma e sotto la cupola, per lui «la più bella di tutte». Fu un duetto, un duello, il gioco di due narcisi, nella situazione più aulica per gareggiare. Era il 1980, Parma era la città più allegra e più ricca dell’Emilia. Correggio il pittore più sensuale e più erotico. Eugenio ed io, due seduttori. Lui a 44 anni, io a 28. Irresistibili, ma non rivali. Complici e così lontani dallo stesso mondo da cui venivamo e a cui appartenevamo.

Così nacque un’amicizia, nella luce del cielo di Correggio. Il cielo era stato generoso con lui, destinandolo a una città che gli assomigliava, dove si era formato. Ed era la città di Attilio e Bernardo Bertolucci, di Luigi Magnani, di Mario Lanfranchi, di Roberto Tassi, di Franco Maria Ricci. E a Parma Riccomini per primo inventò ciò che sarebbe stato ripetuto da altri: un cantiere aperto con i ponteggi percorribili per vedere da vicino, toccare gli affreschi di Correggio. Fu, per la prima volta, come salire in paradiso, con un’intuizione da astronauta dell’arte.

Il suo piacere era la conoscenza, ciò che per gli altri era mistero, per lui era luce. Così, dopo Longhi, dopo Arcangeli, egli vide un’altra Bologna. C’era ancora da scoprire, dopo il passaggio di quei maestri, ed è quello che lui chiamò «ordine e vaghezza» e poi «vaghezza e furore», il trionfo della scultura barocca nei palazzi e nelle chiese della città. Dare certa identità a ciò che c’era, che andava guardato con occhi nuovi.

Questo fu il suo pensiero dominante, il suo desiderio, il suo divertimento. Esplorare mondi presenti ma sconosciuti. La vaghezza chiedeva furore. E lo ebbe a ritmo di musica come tutta la vita mozartiana di Riccomini.

Ma il pioniere, lo scopritore, il filologo non ha mai prevalso sull’uomo, felice degli incontri, delle scoperte, delle opere ritrovate. Ne mise in fila, con una voluttà maestosa e senza precedenti, 3300, molte inedite, per la grande e rivelatrice mostra sul Settecento in Emilia e Romagna, in cinque sezioni, di cui tre a Bologna, una a Parma e una, di carattere neoclassico, nel palazzo Milzetti di Faenza, da poco divenuto di proprietà statale. Tanto basterebbe, con le imprese ferraresi, per una gloria imperitura. In Paradiso racconterà l’arte a Dio.

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