Bce, i falchi volano ancora ma il mercato resta ottimista

Bce, i falchi volano ancora ma il mercato resta ottimista

«Anche se la Bce ha superato una serie senza precedenti di dieci aumenti consecutivi dei tassi d’interesse, non c’è alcuna garanzia di riduzioni nel 2024. Parlare di tagli è ancora prematuro». Agli occhi dei mercati, il governatore della banca centrale austriaca Robert Holzmann appare un po’ come Hiroo Onoda, il soldato giapponese ancora convinto nel 1974 che la guerra fosse in corso.

Il problema è che il falco di Vienna non è il solo rimasto nel bastione dell’Eurotower a credere che l’inflazione rimanga un pericolo. La presidente Christine Lagarde è sulla stessa lunghezza d’onda e pure buona parte del consiglio, al punto che non uno straccio di discussione su un eventuale allentamento della politica monetaria è stato imbastito nella riunione di metà dicembre che ha mantenuto invariato il costo del denaro al 4,5%.

Eppure, da allora, la frattura fra la posizione ufficiale di Francoforte e le aspettative dei mercati – convergenti su una sforbiciata di 150 punti base l’anno prossimo – si è andato dilatando, complice anche la postura da colomba adottata dalla Federal Reserve con l’annuncio che saranno almeno tre le mosse che faranno scendere nel ’24 il costo del denaro. Gli effetti più evidenti di questo iato sono stati la discesa dello spread Btp-Bund attorno a quota 158, valore da confrontare con i circa 215 punti di inizio anno, e il contestuale assottigliamento dei rendimenti del nostro decennale che, dopo aver rotto la soglia psicologica del 5% all’inizio dello scorso ottobre con un moto ascendente simile a quello del T-Bond Usa, è ora attestato al 3,55%, ai minimi da 15 mesi e del 20% al di sotto rispetto a inizio anno. È vero che resta ancora strada da percorrere prima di riportare le lancette al luglio ’22, quando all’avvio della manovra di restringimento della Bce un Btp rendeva mediamente il 2,5%; ma come evidenziato di recente dalla Reuters, la situazione che si è venuta a creare resta una straordinaria boccata d’ossigeno per i Paesi «altamente indebitati come l’Italia, dove i rendimenti dei titoli di Stato si avviano a chiudere il mese di dicembre riportando il crollo più forte dal 2013».

È del tutto pacifico che l’intera impalcatura che sta sorreggendo il rally dei prezzi sull’obbligazionario (e, appunto, la discesa dei rendimenti) si basa sull’assunto che le banche centrali sono ormai pronte a cambiare rotta. C’è da augurarsi che sia davvero così. Anche perché il 2024 non è solo un crocevia reso trafficato dalle elezioni europee e dall’entrata in vigore del riformato Patto di stabilità, ma anche l’anno in cui la Bce rottamerà il Pepp, cioè il piano di acquisti contro la pandemia di cui il nostro Paese ha largamente beneficiato, nonché l’unico argine ancora in piedi contro il surriscaldamento degli spread. L’Ufficio parlamentare di bilancio ha già calcolato che una volta staccata la spina al Pepp, l’Italia sarà alle prese con uno choc permanente di 100 punti base sui tassi che farà salire di oltre 20 miliardi la spesa per interessi nel triennio 2024-26. Un fardello che ricadrà già sulle nuove emissioni lorde dell’anno prossimo, nell’ordine dei 520 miliardi e di circa 100 miliardi superiori a quelle del ’23.

Un minimo scartamento da parte dell’Eurotower rispetto alle attese dei mercati avrebbe quindi conseguenze dolorose sul percorso di risanamento del debito italiano che ci verrà imposto dalle nuove regole di bilancio.

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