Oggi al cuore delle battaglie ambientaliste c’è essenzialmente l’idea che il pianeta si stia surriscaldando, che questo sia addebitabile all’uomo (a causa della produzione di anidride carbonica), che i danni derivanti siano senza dubbio superiori ai benefici e, infine, che l’unica soluzione sia mettere sotto tutela l’intera umanità, operando una sorta di sequestro parziale di ogni proprietà grazie a meccanismi regolatori.
In questo modo l’ecologismo internazionale ha trovato un tema assai più efficace dell’inquinamento e della difesa della biodiversità. Dobbiamo anche constatare un cambiamento decisivo. Mentre nei decenni passati l’ecologismo si collocava sull’estrema sinistra e quindi ai confini dello scacchiere politico, ormai la situazione è completamente diversa. Non soltanto tutti i media e gli uomini politici più influenti pongono la questione ambientale al centro dei loro programmi, ma è interessante rilevare come a promuovere i pannelli solari, le auto elettriche, le pale eoliche, la chiusura degli allevamenti di bovini e la generale ristrutturazione dell’economia al fine di ridurre le emissioni di CO2 ci siano le grandi società finanziarie.
Nel 2020 Larry Fink, chairman e chief executive officer di Black Rock (uno dei maggiori gruppi finanziari), ha inviato una lettera agli imprenditori e ai dirigenti d’impresa per evidenziare come le scelte d’investimento del suo gruppo siano orientate dai valori e dai principi dell’ideologia ESG: ecologica, sociale e governativa. In altre parole, sono i colossi bancari e industriali oltre che i maggiori leader politici dell’Occidente che oggi guidano la cosiddetta transizione verde e che hanno pure creato un clima intimidatorio nei riguardi di ogni voce dissidente: si tratti del riscaldamento globale come della pandemia, della fine delle risorse come delle questioni di genere.
Se l’ecologismo è divenuta la filosofia di comodo dei governanti, dei finanzieri, degli intellettuali e dei maggiori mezzi di comunicazione, è perché permette un dominio senza pari. Una simile evoluzione dell’ambientalismo è interessante. Ci dice molto sulla sinistra attuale, che ha smesso di contestare il sistema e se n’è appropriata, ma anche sul rapporto sempre più complicato tra potere politico, mondo degli affari, intellettuali e reti informative. Il 22 giugno 2023 sul quotidiano progressista inglese The Guardian è apparso un pezzo firmato dai ministri dell’ambiente di Australia, Canada e Nuova Zelanda (Chris Bowen, Steven Guilbeault e James Shaw) in cui si chiede una Bretton Woods 2.0: una nuova architettura finanziaria mondiale volta a sostenere linee di credito in grado di affrontare al più presto il riscaldamento globale. I tre uomini politici non si nascondono dietro a un dito e parlano apertamente di sbloccare maggiori investimenti a favore del sistema privato, perché nel potere contemporaneo gli interessi e l’ideologia, gli oligarchi delle grandi imprese e i poteri di Stato si intrecciano di continuo. In fondo, nell’eco-pacifismo degli anni Settanta avverso alle guerre e al nucleare c’era il persistere di una prospettiva in qualche modo umanista. Al contrario, oggi l’ideologia green sostenuta dai governi e dalle principali centrali economiche guarda all’uomo come a un nemico. Ormai non ci stupisce nemmeno più di leggere come hanno scritto alcuni ricercatori di Lund che rinunciare ad avere un figlio rappresenterebbe una riduzione media annua di 58,6 tonnellate di anidride carbonica. La cosiddetta transizione verde è questo: grazie a un’opinione pubblica terrorizzata e in larga misura priva di spirito critico, le élites (politici, intellettuali, businessmen e scienziati) sono in condizione di esercitare un crescente controllo su ogni aspetto della nostra vita. Fino al punto che ci viene prospettato in termini positivi un futuro nel quale non possiederemo più nulla e non avremo più alcuna privacy. Perché anche in questa circostanza chi vuole disporre di un potere illimitato su di noi sa bene che deve distruggere la nozione stessa della proprietà. Tutto questo è stato messo nero su bianco. In un articolo apparso su Forbes il 10 novembre 2016, significativamente intitolato Welcome to 2030. I own nothing, have no privacy, and life has never been better, Ida Auken ha prefigurato una società nella quale non avremo più beni ma riceveremo prestazioni: «Ogni cosa che consideravi un prodotto, è diventata un servizio». Nessuno avrà più un’autovettura o un’abitazione, ma potrà viaggiare e soggiornare grazie alla disponibilità di strutture e risorse gratuite e a disposizione di tutti. Da dove nasce una simile prospettiva? Auken si occupa di politica in Danimarca ed è stata anche alla guida di un ministero (oltre che parlamentare eletta più volte e per conto di differenti partiti), è pastora della Chiesa nazionale ed è pure molto attiva nel World Economic Forum (WEF). Se ci presenta quel futuro come desiderabile è perché, a suo parere, quella maniera di condividere ogni cosa permetterà una vita assai più semplice e razionale, a contatto con la natura, basata su una sorta di eco-comunitarismo amministrato. Lo shopping diventerà un ricordo e un ruolo cruciale sarà giocato dall’intelligenza artificiale, che aiuterà a soddisfare i nostri desideri meglio di quanto possano fare la nostra debole memoria e le nostre imperfette intuizioni. Il breve testo pubblicato su Forbes di un’ingenuità disarmante non specifica in alcun modo chi gestirà il mondo in questo futuro senza proprietà: chi prenderà quelle decisioni sulla realtà (imprese, terreni, capitali, infrastrutture, ecc.) che potranno fare emergere i servizi di cui abbiamo bisogno. Negli ambienti del WEF, a ogni modo, l’idea prevalente è che le abitazioni, ad esempio, possano essere pubbliche o di grandi imprese private legate al settore pubblico. Una simile prospettiva unisce ecologismo radicale e tecnocrazia. L’esito è micidiale, come dimostra il progetto di considerare inadeguate (non più vendibili, non più affittabili) moltissime delle abitazioni utilizzate ora in Europa.
Soltanto le case dette green, che rispondono quindi a criteri ambientali (e che favoriscono quindi una riduzione del consumo di CO2), potranno essere a piena disposizione del proprietario. Quello che vale per le case si può tranquillamente ripetere per le autovetture. Sempre il World Economic Forum ha recentemente pubblicato un rapporto che prospetta una riduzione del 75 percento delle automobili di proprietà. Questo libro bianco, Benchmarking the Transition to Sustainable Urban Mobility (Analisi comparativa della transizione verso una mobilità urbana sostenibile), annuncia un futuro di città intelligenti che attireranno ancor più la popolazione e che gestiranno la mobilità in maniera centralizzata, attraverso un’attenta pianificazione.