Rìiferendosi alla rivoluzione russa, così l’anarchico Errico Malatesta, il 30 luglio del 1919, sintetizzava il carattere mistificante del concetto di dittatura del proletariato: «Si tratta della dittatura di un partito, o piuttosto dei capi di un partito; ed è dittatura vera e propria, coi suoi decreti, colle sue sanzioni penali, coi suoi agenti esecutivi e soprattutto colla sua forza armata, che serve oggi anche a difendere la rivoluzione dai suoi nemici esterni, ma che servirà domani per imporre ai lavoratori la volontà dei dittatori, arrestare la rivoluzione, consolidare i nuovi interessi che si vanno costituendo e difendere contro la massa una nuova classe privilegiata. Anche il generale Bonaparte servì a difendere la Rivoluzione francese contro la reazione europea, ma nel difenderla la strozzò. Lenin, Trotsky preparano i quadri governativi che serviranno a quelli che verranno dopo per profittare della rivoluzione ed ucciderla. Essi saranno le prime vittime del loro metodo, e con loro cadrà la rivoluzione. È la storia che si ripete: mutatis mutandis, è la dittatura di Robespierre che porta Robespierre alla ghigliottina e prepara la via a Napoleone».
Questa eccezionale profezia, a meno di due anni dal colpo di Stato comunista dell’ottobre del ’17 (si pensi a Robespierre-Lenin che prepara la via a Napoleone-Stalin e all’assassinio di Trotsky su ordine di Stalin), dà l’esatta misura della natura totalitaria del leninismo e dei suoi devastanti effetti anti-libertari e anti-egualitari.
Il nesso inscindibile che unisce Lenin a Marx è dato dallo scacco scientifico del marxismo. Per Marx l’avvento del socialismo sarebbe dovuto avvenire con tendenze storiche operanti «con bronzea necessità». Se non che la storia non ha seguito affatto la traiettoria prevista dalla sua dottrina. Tutta l’opera di Lenin, da cui sono tratte le citazioni che seguiranno, costituisce la conferma più esplicita di questo fallimento, perché l’azione del capo bolscevico è stata quella di sostituirsi al processo storico, dato che questo è risultato del tutto avverso alle previsioni marxiane. Nel 1917 la società russa era composta da circa 140 milioni di individui, di cui oltre 100 milioni erano contadini, mentre gli operai non raggiungevano la quota di 3 milioni; non superavano pertanto il 2,5% dell’intera popolazione. Sempre nel 1917 in tutta la Russia i seguaci di Lenin risultavano meno di 30.000. Si domanda ora: con quali facce di bronzo gli storici marxisti hanno potuto, per decenni, parlare della Rivoluzione d’ottobre come della rivoluzione vittoriosa della classe operaia, sotto la guida di un partito comunista avente un generale consenso nel Paese? La rivoluzione del 1917 non fu una rivoluzione di popolo, ma il golpe fortunato di un piccolo partito.
Ecco perché si era data la necessità di forzare il processo storico con la costruzione di un’organizzazione di rivoluzionari di professione, che assumesse su di sé il compito generale di creare il socialismo. La vicenda dell’Assemblea Costituente conferma tale assunto. Il risultato elettorale mostra in modo inequivocabile il carattere minoritario del bolscevismo, avendo questo ottenuto il 24,7% dei consensi. Riunitasi per la prima volta il 18 gennaio 1918, l’Assemblea fu subito chiusa (lo stesso giorno!) e mai più riaperta.
Il partito si deve estrinsecare in una formazione di combattimento centralizzato, composta esclusivamente di rivoluzionari di professione, votati anima e corpo alla rivoluzione e decisi a combattere senza pietà con tutti i mezzi possibili. Il partito, dice appunto Lenin, deve essere in grado di «tutto correggere, designare e costruire in base a un criterio unico». La società, quindi, va concepita come «un grande ufficio e una grande fabbrica», dove vi sarà la sostituzione totale e definitiva del commercio con la distribuzione organizzata secondo un piano. La dittatura, inoltre, viene esercitata perché «noi non riconosciamo nulla di privato»: «per noi, nel campo economico, tutto è pubblico e non privato. Ammettiamo soltanto lo Stato, ma lo Stato siamo noi». Per dominare la società, il partito dovrà significativamente esercitare «la dittatura rivoluzionaria con un potere che si appoggia sulla violenza e non è vincolato da alcuna legge». E ancora: «Noi diciamo: sì, dittatura di un partito», che «ha bisogno dello Stato non per la libertà, ma per schiacciare il nemico».
Le direttive impartite da Lenin erano fondate sul terrore: «In linea di principio noi non abbiamo mai rinunciato e non possiamo rinunciare al terrorismo»; oppure, «Bisogna instaurare subito il terrore di massa». E poi: «Nella lotta contro una società immorale come la società contemporanea tutti i mezzi sono leciti», per arrivare a: «Bisogna dare l’esempio: impiccate (impiccate in modo che la gente veda) non meno di cento kulaki».
Il capo bolscevico afferma la necessità del terrore sottolineando il suo carattere istituzionale: «Il pensiero fondamentale è chiaro: esporre apertamente il concetto di principio e politicamente veritiero che motivi l’esistenza e la giustificazione del terrore. La giustizia non deve eliminare il terrore; ma fondarne e legittimarne il principio».
Ancora oggi vi sono interpreti come Guido Carpi, Lenin il rivoluzionario assoluto, 1870-1824 (Carocci) che leggono questa intransigenza in una chiave parzialmente assolutoria, per cui l’azione rivoluzionaria e la creatività politica di Lenin nel colmare lacune teoriche del marxismo non solo fungono da paravento col quale si evita di guardare l’assoluta continuità con quanto seguì nella strutturazione totalitaria del potere sovietico, ma sono anche il dispositivo retorico che consente di rimuovere l’orrore che dovrebbero suscitare in chiunque le direttive criminali impartite dal leader bolscevico e la conseguente messa in scena della violenza come attore imprescindibile dell’azione politica rivoluzionaria.
In realtà il socialismo derivato da Lenin ha reso evidente la non-fondazione economica del comunismo, visto che alla legge del valore è subentrata la pianificazione guidata dalla politica, che il potere del denaro è stato sostituito dal potere statale, che il senso della socialità, determinata dalla libera e spontanea anomia del mercato, si è metamorfizzato nella specifica produzione di senso elaborata dal partito, vero cuore e vera mente del progetto totalitario.