Siamo tutti un po’ “Parenti Serpenti”: quell’Italia riunita per il pranzo di Natale

Wikipedia

Ci sono film che sembrano raccontare chi siamo. Li guardiamo separati da uno schermo, magari con una ciotola di popcorn da piluccare, ma lì dentro potremmo benissimo starci anche noi. Un’immedesimazione che succede più di frequente sotto le feste, specie quelle di Natale, quando il tempo per godersi una poltrona, a casa o al cinema, si dilata. E ci sono pure pellicole che trasmettono questa sensazione tattile più di altre.

Pressoché tutti cedono al rito dei titoli da vedere in questo periodo, ma tra un blockbuster americano ed un cinepanettone all’italiana non viene sempre agile riconoscersi. Il discorso non vale per Parenti Serpenti (1992) di Mario Monicelli. Lì sì, ci ritroviamo in massa. Tavola imbandita per il pranzo. Tovaglia rossa e addobbi natalizi. Campanello che trilla, in una casa qualsiasi di Sulmona. Una famiglia numerosa si ritrova a casa dei nonni, Saverio (Paolo Panelli) e Trieste (Pia Velsi) per festeggiare insieme. Dalla porta entrano quattro fratelli, tre dei quali sposati e uno single.

C’è Lina, nevrotica bibilotecaria al Comune di Teramo, insieme al marito Michele (un geometra) e al figlio Mauro. Poi Milena, casalinga disperata a causa della sua infertilità, accompagnata dal marito Filippo, maresciallo maggiore dell’areonautica a Roma. Quindi Alessandro, impiegato delle poste a Modena, convintamente ambientalista e comunista, insieme alla moglie Gina, snob al quadrato, e alla figlia Monica, che coltiva l’ambizione massima di diventare una ballerina di Fantastico. L’ultimo è Alfredo, professore di italiano a Como, single e senza figli.

Tutto sembra scorrere liscio, ma come qualsiasi italiano sa, contesti del genere non possono mai dirsi blindati. L’agguato è sempre dietro l’angolo, infilato dietro la patina di falsa cordialità indossata per sopportarsi a vicenda, quando è evidente che tutti hanno un giudizio tutt’altro che lusinghiero dei parenti. Basta grattare lievemente quell’intonaco maldestro per scoprire i drammi irrisolti. A farlo ci pensa Trieste, con un annuncio raggelante per i figli: siamo attempati, qualcuno di voi ci deve guardare. Decidano loro chi, sapendo che ai designati andrà in dote una parte della loro pensione, oltre all’appartamento in cui si trovano adesso, quando i genitori se ne andranno.

Ed è esattamente qui che si incrina la falsa pacatezza dei commensali. Qui che erompono a fasci le invidie, le malignità, i commenti velenosi. Perché il pranzo di Natale ci prova, ad essere un grande equalizzatore, ma l’attitudine italiana – specialmente, ma non solo nostra – all’individualismo sfrenato se ne sta sempre lì, carsica e infida, pronta a deflagrare alla prima scintilla. Così le coppie si radunano in improvvisati capannelli che disvelano livori mai superati, tradimenti o confessioni necessarie, come quella sull’omosessualità di Alfredo.

Ne viene fuori un carnaio che si sviluppa tutto in una manciata di stanze, disgregando l’atmosfera natalizia e imbevendola di attriti che nascono come sempre da questioni afferenti ai soldi, alla libertà personale, alle frustrazioni che la vita inevitabilmente distribuisce. Un ritratto del cinismo nazionalpopolare– raccontato attraverso gli occhi candidi del piccolo Mauro, ignorato per tutto il tempo – che raggiunge il suo climax quando il mucchio assume una decisione tremenda: uccidere i due anziani nella notte di Capodanno, simulando un incidente domestico con una stufa a gas.

Esasperazione filmica, certo, eppure metafora aderente ad una realtà condivisa. Anche quest’anno ci toccherà in dote la manfrina dei sorrisi di circostanza e dei regali obbligati. Anche quest’anno la rissa si nasconderà ghignante tra primo e secondo.

Leave a comment

Your email address will not be published.