Grattano letteralmente il fondo, irrimediabimente avviliti, avviluppati dalla disperazione. La lega sta miseramente fallendo, c’è poco da girarci intorno. Eppure quando l’avevano spuntata loro, quattro anni prima, le premesse sembravano così differenti. Quel prodigioso ragazzo dalle mani enormi e una pittoresca cesta afro in testa aveva snobbato l’Nba per accasarsi con loro, all’Aba. Era l’estate del 1972 e Jiulius Erving si apprestava a sbriciolare gli inscalfibili dogmi del basket a stelle e strisce.
A scuola, con il suo migliore amico, si erano affibbiati dei soprannomi. Lui chiamava l’altro “The professor”, mentre il suo era “The Doctor”. Non poteva sapere che se lo sarebbe portato dietro per sempre. Era nato nel 1950, Julius, e come molti newyorchesi che sapevano farci con la palla a spicchi, si era subito cimentato con la Mecca d’asfalto di Rucker Park, nel Bronx. Lì i primi osservatori avevano iniziato a lucidarsi gli occhi. La gente premeva contro il recinto metallico e saliva sugli alberi, quando c’era lui. Era forte in tutto, ma sapeva essere devastante con le schiacciate.
Era chiaro che l’Aba gongolasse, al momento di quella fatidica scelta. Doctor J avrebbe giocato cinque anni ai Virginia Squires e poi ai New York Nets, intridendoli di acrobazie surreali, prima che il giochino deflagrasse. L’Aba cercava però un improbabile canto del cigno. Così, nel gennaio del 1976, sull’orlo del baratro finanziario, ecco l’idea: organizzare la prima gara di schiacciate della storia. Evento a sorpresa, che prende in controtempo anche l’Nba, dove comunque Erving si trasferisce lo stesso, diventando un’icona dei Philadelphia 76ers.
Così eccoli lì, riuniti, a ciondolare sul parquet davanti ad una folla stratosferica, sedotta da questa nuova competizione che – come una moderna tenzone – ingaggia i migliori schiacciatori del paese. Fanno tamburellare la palla e riflettono, pensando a come potrebbero stupire maggiormente il pubblico. C’è chi fabbrica acrobazie per strappare consensi. Erving no. La gente che si spella le mani non ha ancora visto niente.
Indossa la canotta numero 32, Julius, quella che anticipa il leggendario numero 6. Si porta lentamente nella metà campo opposta a quella dove si trova seduta la giuria. Inspira tre o quattro volte. Poi parte. Nove decise falcate. Giudici e folla si chiedono cos’abbia in mente, considerata quell’andatura che rischia di mandarlo fuori tempo. Il fatto è che lui ha pensato una cosa che nessun altro ha pensato. E se lo ha fatto, è per due motivi precisi. Uno: certi guizzi stanno soltanto nel repertorio dei creativi. Due: lui può fisicamente farlo, altri no.
Raggiunge la linea dei tiri liberi, Erving. E da lì decolla. La gente che lo vede staccare da quella distanza ha anche il tempo di pensare che sia un pazzo. Perché quel volo sembra durare per un’infinità. Julius sta letteralmente infragendo le leggi imposte dalla forza di gravità. Occhi sgranati e bocche spalancate. Mai vista una roba simile. Quando finalmente inizia la discesa, la palla viene sbattuta dentro la retina. Nessuno crede a quello che ha appena visto. Quel primo Slam Dunk lo vince lui, ovviamente.
Quando un commentatore, estasiato, un giorno gli chiederà come può chiamarlo, perché ha finito tutti gli aggettivi per lui, Erving risponderà: “Chiamami come vuoi, ma se proprio non sai come, chiamami The Doctor“.