«In questo Natale nessuno perda la speranza, nemmeno chi vive ai margini. Dio è sempre accanto a noi, anche se oggi sembra che si provi vergogna a testimoniare la propria fede». L’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, alla vigilia di Natale offre una riflessione su temi come la sicurezza in città, la crisi demografica, il ruolo dei cattolici. Con un appello e un augurio rivolto soprattutto ai bambini.
Anche questo Natale sarà segnato dai conflitti nel mondo e dalle sofferenze. Ma c’è davvero il rischio che ci si abitui alla guerra?
«In ogni posto che visito c’è sempre la preghiera per la pace o una riflessione dedicata a questo tema. Mi pare che non ci si abitua mai alla guerra! Tanta gente sente la guerra come una malattia da contrastare in tutti i modi, nonostante la paura».
Nel suo discorso alla città per Sant’Ambrogio ha parlato proprio della paura. Riguardo a Milano in tanti parlano, soprattutto sui social, della poca sicurezza in città. Secondo lei serve uno sforzo in più delle istituzioni e dei cittadini?
«Credo che serva uno sforzo di tutti. Ma il vero rimedio alla paura per la sicurezza in città è il buon vicinato: tessere rapporti rassicuranti per la conoscenza reciproca. Quando ci si conosce, ci si stima e può esserci aiuto vicendevole. Le istituzioni devono fare il loro dovere, i cittadini devono essere chiamati e richiamati a rispettare le regole della convivenza. Ma gli interventi normativi, legislativi, repressivi, non sono mai una garanzia della sicurezza. Invece il buon vicinato e la disponibilità ad aiutarsi certamente rassicura. L’immagine di Milano che viene data sui social, con questi allarmi per la sicurezza, mi sembra diversa da quella che ho visto girando per tutte le parrocchie, dove ho trovato tanto volontariato e tanta solidarietà. A tal proposito ho scritto sette lettere per Milano. Ho visto anche tanti problemi ma la città mi sembra molto meno preoccupata della propria sicurezza di quanto si dica».
Sui social l’allarme però riguarda anche gli hater, gli odiatori digitali. Serve una regolamentazione a suo parere?
«Credo che potrebbe servire, per rendere il mondo dei social un luogo sereno e abitabile. Ma sarebbe interessante prima di tutto promuovere una forma di educazione e di rispetto per gli altri. Bisogna abitare i social come si abitano le strade della città, con rispetto gli uni per gli altri e con la voglia di creare un luogo dove sia desiderabile abitare».
La gente oggi, distratta anche dai social, sembra sempre più disinteressata da ciò che dice la Chiesa. Come si fa a far tornare Dio al centro?
«Noi siamo piccoli uomini e piccole donne, non decidiamo noi dove Dio debba stare. La certezza che Dio è all’opera non può mai abbandonarci. Magari uno può non pensarci, può essere indifferente, può bestemmiarlo, ma Dio continua ad amarci. Anche se parlare della propria fede oggi sembra quasi una maleducazione o un’indiscrezione, Dio è presente. Certo non come qualcuno lo immagina, come un tiranno che sistema tutto il regno, ma è presente come Gesù, in modo discreto, come una figura fragile ma tenace e determinata ad amare fino alla fine».
Il Papa dice spesso, però, che ci sono troppi «cattolici da salotto». Questo la preoccupa?
«In un certo senso mi preoccupa il fatto che i cattolici, pur essendo tanti, bravi e generosi, siano troppo poco presenti quando c’è da testimoniare la fede. Non dico che sono da salotto, che si sono accomodati in una pigrizia o in una mediocrità, ma che non sentono abbastanza vivo l’ardore per rendere partecipi della loro gioia e della loro speranza tutti coloro che incontrano».
A preoccupare la Chiesa c’è certamente anche il calo demografico, non si fanno più figli.
«Certamente la società non ha futuro se non ci sono bambini. Penso che avere figli sia una grazia, che comporta impegni e sacrifici. È straordinario vedere una famiglia dove i figli sono accolti e, nonostante le difficoltà, crescono sereni perché la famiglia è unita. Avere un figlio è davvero una grazia che cambia la vita. E lo auguro a tutti».
A Natale si pensa sempre a chi è meno fortunato. Nel suo discorso alla città ha detto che «il coraggio uno se lo può dare» smentendo di fatto Don Abbondio nei Promessi Sposi che sosteneva il contrario. Ma chi ha perso tutto come fa a trovare il coraggio di rialzarsi?
«Dentro ogni persona a mio parere c’è la vocazione alla fiducia, quindi ciascuno può anzitutto ascoltare se stesso, riconoscere che la sua vita non è un insieme di problemi da risolvere ma una vita ricevuta. Nella proposta pastorale che ho rivolto quest’anno all’arcidiocesi ho insistito su questo: la vita prima di tutto è un dono che diventa una vocazione. Quindi credo che questa bellezza del vivere sia l’elemento che permette di reagire anche alla povertà, ai fallimenti, alle situazioni difficili. Come del resto hanno fatto i nostri nonni dopo la guerra, con una città distrutta e che hanno avuto voglia di ricostruire. Poi c’è la solidarietà e l’affidabilità delle istituzioni che non possono venire meno. C’è davvero la possibilità di iniziare un anno nuovo con un maggiore slancio e io vorrei proprio che fosse un anno sereno in cui il coraggio di affrontare le sfide sia condiviso e non una responsabilità di ciascuno. Che sia il cammino di tutta la città».
Che augurio si sente di rivolgere quindi in questo Natale, soprattutto ai più piccoli?
«L’augurio ai bambini è che sentano la presenza di Gesù come quella di un amico che li aiuta a vivere il presente, a desiderare il futuro e ringraziare di quello che hanno ricevuto. Queste tre parole: il presente e quindi la preghiera, poi il futuro e quindi la domanda sulla propria vocazione e infine la gratitudine per dire siamo destinatari di un grande dono che è l’affetto dei nostri genitori, dei nostri nonni, dei nostri amici. Sono tre cose che potrei raccomandare oltre che augurare. In particolare la gratitudine vorrei che fosse un impegno che voglio affidare a tutti i bambini: imparate a dire grazie per questa vita ricevuta, una vita bella, una vita piena di gioia».