“Mio padre tra banca, versi e psicanalisi. Ecco dove sono nate le sue opere”

Nella sezione L’amore e il mito della raccolta di poesie L’Anima c’è una poesia che comincia così: «In casa ho una galleria: si chiama/ la galleria degli antenati. È oscura,/ fitta di libri, mobili, cristalli/ balenanti, ritratti/ di famiglia, nel mezzo attraversata da una lama/ di luce, fiancheggiata da alte mura./ In fondo, a un capo e all’altro, splende il fosco/ chiarore di Milano entro due sale, rosa e oro/ con grandi specchiere dorate/ l’una, e l’altra verde come un bosco/ con vecchi legni del settecento, grandi quadri campestri, argenti e fiori». Questo luogo, che nella sua struttura portante è rimasto invariato, lo percorro più volte al giorno da più di trent’anni, ovvero dalla data in cui mio padre è morto. È diventato lo studio dove lavoro e dove passo la maggior parte del tempo immaginando mondi lontani, decori e avventure possibili. Inavvertitamente in ogni angolo appare misteriosa la sua figura, il dialogo che negli anni avevo avuto con lui si intreccia di nuovo tra questi muri, e il passato rimemorato e amato affiora nelle trame del mio cuore.

Mi è ancora difficile chiamarlo per nome, Alessandro. Per me resta mio padre, anche ora che è passato molto tempo dalla sua scomparsa. Allora avevo appena compiuto trent’anni e lui sessantotto. Non vivevo più a casa da qualche tempo, mi ero laureato in filosofia e avevo iniziato a disegnare interni di case. Avevo appena incontrato in quella sala «verde come un bosco» Laura Sartori, la persona con cui avrei poi condiviso lo studio. Due eventi che insieme, anche se non collegati, hanno modificato la mia esistenza. Avevo conservato nell’appartamento dei miei genitori una stanza, dove disegnavo, quindi incontravo mio padre e scambiavo con lui qualche pensiero quasi ogni giorno. Lo vedevo affettuoso e distante. Aveva lasciato da un po’ di anni la banca, dove aveva lavorato fin da giovane, e aveva intrapreso «il cammino» (per usare una parola a lui cara) della psicoanalisi, creando un cenacolo di adepti, un cammino che era lontano dalle mie idee filosofiche di allora. Pensavo, forse un po’ ingenuamente e con la forza della ribellione, che l’abisso umano fosse un terreno insondabile e inscalfibile, e non condividevo lo «scoperchiamento del vaso di Pandora» che avveniva quotidianamente in quelle stanze. Avevamo accese discussioni e le nostre posizioni restavano invariate e remote.

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