Sei anni per arrivare a una richiesta di assoluzione: per Tiziano Renzi, padre dell’ex presidente del Consiglio, è una magra soddisfazione quella che arriva ieri, nell’aula del processo per gli affari della Consip, la centrale pubblica degli appalti. Anche perchè già da sei anni era noto che la sua incriminazione era conseguenza dei falsi commessi dall’ufficiale dei carabinieri cui il pm napoletano John Woodcock aveva affidato l’inchiesta, il maggiore del nucleo operativo ecologico Giampaolo Scafarto. Approdata a Roma, l’inchiesta napoletana è stata riletta in profondità, e tra gli imputati è finito anche Scafarto, per il quale ieri viene chiesta la condanna a un anno e dieci mesi di carcere; un anno la richiesta per il generale dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia; colpevoli, per la pubblica accusa, anche l’ex deputato Italo Bocchino, candidato a un anno di carcere, e l’imprenditore Alfredo Romeo, il re degli appalti Consip e editore del quotidiano il Riformista, vicino a Matteo Renzi.
E a lungo vicino a Renzi è stato Luca Lotti (nella foto), ex ministro dello Sport, per il quale il pm chiede la condanna a un anno di carcere. A chiamarlo in causa è stato Filippo Vannoni, ex consigliere di Palazzo Chigi, che però quando venne interrogato dal Csm spiegò di essere stato interrogato da Woodcock senza avvocato, «colpito e intimidito» con domande come «vuole fare una vacanza a Poggioreale?». «Per questo feci il nome di Lotti, per cavarmi d’impaccio». Nel dicembre del 2016 Vannoni andò a scusarsi con Lotti («sai, ero sotto pressione, mi fumavano in faccia») che gli rispose «non ti do una testata perché siamo in un luogo istituzionale». Eppure nella sua requisitoria di ieri il pm Mario Palazzi ritiene comunque provato il reato attribuito a Lotti, e cioè avere rivelato a Vannoni l’esistenza dell’inchiesta su Consip.
Già così, tra richieste di assoluzioni e blande proposte di condanna, il bilancio dell’indagine Consip appare poca cosa rispetto al fragore con cui era partita l’indagine a Napoli. Ma ad inghiottire tutto non sarà una sentenza definitiva bensì la prescrizione, secondo le previsioni sconsolate dello stesso pm Palazzi: «un processo che è più destinato alla storia che alla giustizia perché molti o quasi tutti questi reati saranno travolti dalla prescrizione. È irragionevole pensare che si arrivi a un giudizio definitivo senza la mannaia della prescrizione». La surreale durata del processo secondo Palazzi ha avuto cause a disparate: «Un’inchiesta che ha avuto un’articolata fase di indagine, con un dialogo serrato tra ufficio di procura e quello del giudice preliminare, un processo con una attività istruttoria amplissima, che ha attraversato il drammatico periodo Covid con i conseguenti rallentamenti».