Stanare i dettagli. In una nota alla nuova edizione de Il Maestro e Margherita (Mondado ri, pagg. 660, euro 13,50) Serena Prina ricorda che «scrivere a lume di candela era un’abitudine di Bulgakov». La candela artiglia il buio, oscilla e costruisce una tenda di luce per lo scrittore. Per un attimo, l’elemento più debole sembra tenere sotto scacco le tenebre: un coltello alla gola della notte. La candela è la metafora perfetta per raffigurare un libro “stregato” come Il Maestro e Margherita, un libro -vortice, che sembra incenerire, nel suo sabba verbale, ogni romanzo mai scritto.
Bulgakov aveva iniziato il suo capolavoro nel 1928. Pare – secondo una tradizione che da Virgilio a Gogol’ arriva fino a Kafka – abbia bruciato le prime minute del libro «in preda a una crisi di disperazione e d’impotenza» (Prina). Quel «romanzo sul diavolo» gli rubava il sonno; un libro, d’altronde, deve sempre passare la prova del fuoco. Più prosaicamente: quelli sono anni terribili per Bulgakov. Il dottor Michail Afanas’evic, laureatosi con il massimo dei voti a Kiev, aveva praticato nella più remota provincia (si leggano le Memorie di un medico, Neri Pozza, 2020, sempre nella traduzione di Serena Prina), scegliendo, dal 1920, di smettere il camice per darsi alla letteratura. Il successo gli aveva sorriso per un po’. Bulgakov, tuttavia, non era irreggimentato in alcun club di letterati, non si lasciava avvincere da mire politiche: presto cadde in disgrazia; la censura mutilò i suoi libri, le pièce furono soppresse dai teatri sovietici, la polizia segreta gli sequestra diari e quaderni.
La primissima redazione del Maestro e Margherita – scritta al culmine dello scoramento- coincide con la fatidica lettera Al Governo dell’Urss, in cui Bulgakov ribadisce la propria identità di «uomo distrutto» e di scrittore libero: «tutta la stampa dell’Urss, e insieme a essa tutte le organizzazioni alle quali è affidato il controllo del repertorio, per tutti gli anni della mia attività letteraria hanno dimostrato, unanimemente e con straordinaria furia, che le opere di Michail Bulgakov non hanno diritto di esistere in Urss. E io dichiaro che la stampa dell’Urss ha perfettamente ragione». Bulgakov chiede di poter espatriare.
Il permesso gli è negato. Tuttavia, Stalin, un suo fan – amava I giorni dei Turbin, dramma tratto da La guardia bianca – telefona allo scrittore. L’imponderabile governatore dell’Urss concede a Bulgakov un impiego presso il Teatro dell’Arte di Mosca: pare non fosse un cattivo attore. Stalin chiude la telefonata con una battuta enigmatica, da romanzo: «Sa, io e lei dovremmo incontrarci una volta, parlare un po’». Bulgakov continuò a scrivergli, memore di quell’appuntamento – Stalin, ovviamente, non si fece più sentire.
Certo dell’impossibilità di pubblicare il suo romanzo, Bulgakov lavora a Il Maestro e Margherita fino al febbraio del 1940, un mese prima della morte. Elena Sergeevna Šilovskaja, la terza moglie di Bulgakov, terminò nel ’41 di battere a macchina il romanzo, che uscì in Russia soltanto nel 1966. A dire della prima moglie, Tat’jana, Bulgakov «aveva una brutta pelle… ma era spiritoso, affascinante, sapeva e amava corteggiare le donne». Amava il gioco. Era superstizioso.
La prima edizione de Il Maestro e Margherita è torturata da pesanti tagli: quelli più corposi colpiscono innanzitutto il “romanzo nel romanzo”, il romanzo del Maestro che racconta il processo di Gesù («Jeshua Ha-Nozri») e la storia del crudele Ponzio Pilato. Una frase censurata – ma ripristinata in questa edizione, che riprende quella edita da Mondadori nel 1991 – rivela il misterioso legame tra Pilato e Gesù. «Assomiglio forse a quel giovane folle dall’animo puro che verrà giustiziato quest’oggi?», sussurra Pilato, «con occhi morti… digrignando i denti», al sommo sacerdote Caifa. Il papà di Bulgakov, Afanasij, insegnava storia delle religioni all’Accademia teologica di Kiev; ne Il Maestro e Margherita una folta dote di fonti letterarie – il Faust di Goethe, il gergo di Gogol’, il lirico candore di Puškin, il Grande Inquisitore di Dostoevskij – si mescola alla reminiscenza di testi apocrifi – gli Atti di Pilato, ad esempio – e cabbalistici. Insieme a Woland, alfiere del caos, mefistofelico capo delle orde sataniche, è proprio Pilato il co-protagonista del romanzo.
Buon esercizio “natalizio” è leggere dunque Il Maestro e Margherita a partire dai capitoli “evangelici” – «Ponzio Pilato», «L’esecuzione», «Come il procuratore tentò di salvare Giuda di Kiriat» – di flagellante bellezza, assoluti. La morte per tortura del giusto a Gerusalemme si rispecchia nella sanguinaria assurdità della Mosca sovietica, dove i giusti marciscono in manicomio. Pilato è il mistico opposto di Gesù: quando si riferisce a lui come «giovane folle» usa la parola jurodivyi, «pazzo di Cristo», il profeta demente, figura miliare della spiritualità russa, in oltraggio a ogni potere, venerato o egualmente fustigato – dal popolo, che percorre, secondo il duro canone di San Paolo («chi tra voi si crede sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente» 1 Cor 3, 18) ricalcato nei Racconti di un pellegrino russo, la via dell’insussistenza, del vagabondaggio in Dio, in obbedienza al precipizio. Che il plenipotenziario di Giudea non si opponga all’esecuzione di colui che «si accorge di amare, di aver atteso da sempre» (Igor Sibaldi) è mistero che annienta ogni dire.
Il Maestro e Margherita è anche il romanzo della condanna d’amore («Seguimi, lettore, e segui me soltanto e io ti mostrerò un simile amore»).
Qualche anno fa, Serena Prina mi ha raccontato un episodio poco noto che lega la storia di Bulgakov a quella di Boris Pasternak. Lo ricalco. «Quando Bulgakov, malatissimo e quasi morente, accettò di incontrare il poeta, i due rimasero a lungo a conversare, da soli. Poi Pasternak se ne andò, e la moglie di Bulgakov ricorda che Michail Afanas’evic le disse: “A quello, lascialo sempre entrare”. Non ci fu un secondo incontro, pochi giorni dopo Bulgakov morì». È commovente l’incontro, sulla soglia della morte, tra il grande poeta e il grande romanziere. Pasternak fece tesoro di quella conoscenza: il protagonista del suo unico romanzo, il dottor Jurij Živago, è a sua volta emblema – fin nel nome velato – dello jurodivyj, «colui che rinunciava a un ruolo sociale integrato in cambio della possibilità di denunciare gli abusi e le ipocrisie della società». Un passaggio di consegne lega questi romanzi della ribellione, da leggere come si entra in un sacrario. La candela, a volte, si rivela falò.