Alla profonda irritazione con la quale martedì sera la premier Giorgia Meloni e il ministro Giancarlo Giorgetti avevano accolto l’annuncio dell’accordo tra Parigi e Berlino sul nuovo Patto di Stabilità, ieri sera hanno fatto riscontro le parole di approvazione del ministro sul recepimento delle iniziali richieste italiane in materia di investimenti legati al Pnrr, oltre all’aver considerato fattore rilevante le attività nel settore della difesa e soprattutto ottenuto lo scomputo della spesa per interessi dal deficit di bilancio fino al 2027.
Evidentemente nella notte e per tutta la giornata di ieri le diplomazie parallele hanno lavorato con grande solerzia per ricucire uno strappo che l’arrogante disinvoltura con la quale le due capitali avevano segretamente concordato i termini del nuovo Patto aveva provocato, fino a minare la tenuta di un’impalcatura costata due anni di faticosi compromessi. Del resto, ancora ieri mattina, negli scambi tra ministri la parola «veto» sembrava prevalere, al punto che se uno soltanto dei membri dell’Unione avesse levato una qualunque protesta – questa la parola d’ordine – l’Italia si sarebbe accodata paralizzando nuovamente i lavori.
Non è andata così perché alla fine, per dirla con le parole di Giorgetti, ha prevalso la logica del compromesso, dove non tutto è andato per il verso voluto sebbene alla fine anche la Germania sia stata costretta a fare un passo indietro, se è vero che ha dovuto rinunciare alle pretese più ruvide in materia di debito consentendo all’Italia una realistica e graduale riduzione.
Si potrà meglio misurare nei prossimi giorni l’efficacia delle formule, magari scoprendo che il governo italiano si è trovato costretto ad accettare di fermarsi un passo prima del risultato ideale che pure sostiene di avere conseguito. L’importante è che le nuove norme incoraggino effettivamente la realizzazione delle riforme, accordando la giusta considerazione agli investimenti che ogni Stato membro ritenga di dover realizzare per impedire che la crescita economica non venga mortificata. E se ciò richiederà che la Banca centrale europea anticipi di qualche mese la manovra al ribasso sui tassi, che oggi pervicacemente sembra voler rinviare troppo in là, sarà dovere delle autorità europee fare in modo che l’Eurotower non cada nell’errore opposto a quello che due anni fa l’ha vista crocifissa dai mercati per aver sottovalutato l’avanzare dell’inflazione.
Resta l’amarezza di un Patto che risente ancora dell’influenza della Germania che, sebbene conti tuttora su strutture economiche forti, come ha spiegato di recente l’economista Mario Monti, oggi appare appannata nelle decisioni cruciali, ha perso in autorità morale, a volte esporta instabilità o ricorre a trucchi e artifici contabili. Sarebbe stato invece auspicabile che approfittando di una riforma che nei prossimi anni inciderà severamente sui destini di tutti gli europei, si fosse puntato a dare molto più vigore alla procedura contro gli squilibri macroeconomici, costringendo la Germania a farsi carico di un sostegno reale all’Europa, invece che preoccuparsi esclusivamente dei cittadini tedeschi, visto che al bilancio dell’Unione partecipano concretamente tutti i 27 partner.