Quando avevamo “la guerra addosso”

Quando avevamo "la guerra addosso"

La guerra addosso, di Giuseppe Del Ninno (Oaks editore, 151 pagine, 18 euro), è una storia familiare e insieme una storia nazionale, un Novecento privato che si intreccia con quello pubblico, apparentemente normale il primo, nella quotidianità di esistenze che fra loro si mischiano, matrimoni, nascite, morti, luoghi di lavoro e residenze domestiche, ricchezza, meglio, agiatezza, e povertà, meglio ristrettezza, a fare da contorno; sostanzialmente convulso il secondo per almeno una buona metà del suo percorso: due guerre mondiali, una vinta e l’altra persa, e una guerra civile a completare quest’ultima, due regimi, uno liberale, l’altro dittatoriale, un colonialismo che il primo consegna al secondo e che per un decennio si colora di suggestioni imperiali, una nazione invasa, un Paese distrutto, poi ricostruito, la fame e il boom economico…

Apparentemente normale, abbiamo detto non a caso a proposito del Novecento privato, visto lo sconvolgimento tellurico subito da quello pubblico, ma si potrebbe tranquillamente aggiungere che quella normalità apparente è anche il tratto distintivo che accompagna la storia d’Italia ancor prima del suo farsi storia nazionale e in qualche modo ne forma il carattere, la facies, il tipo umano lì dove dominazioni e occupazioni, signorie e principati, regni stranieri e istanze libertarie, sommosse popolari e sogni risorgimentali ne accompagnano lungo i secoli il cammino. Pochi popoli sono stati, come il nostro, così schiacciati dalla Storia, dalla tragica potenza della Storia, una specie di gigantesca mareggiata che nel suo periodico ritrarsi lasciava sulla spiaggia detriti e tesori, e pochi popoli sono riusciti, come il nostro, a muoversi fra quei detriti e quei tesori, a volte nobilitando con intelligenza i primi, a volte dilapidando con insensatezza i secondi.

Nel suo libro Del Ninno mette a frutto quella che è stata la lezione storiografica degli Annales, la cosiddetta storia non dei grandi eventi, ma delle piccole cose, non delle battaglie, dei trattati, dei condottieri, ma delle singole esistenze, dei microcosmi urbani, degli oggetti di uso comune. Non a caso il suo libro è corredato da una serie di immagini fotografiche emblematiche: una lapide in un cimitero militare d’oltreoceano, un lasciapassare della guerra partigiana datato 1944, l’istantanea d uno studente della milizia fascista, di un’uniforme della Grande guerra ora custodita al Museo del Risorgimento di Roma, il ritratto di un ufficiale dell’esercito austroungarico, quest’ultimo a ricordarci, fra le altre cose, che la Prima guerra mondiale fu anche l’ultima delle guerre del Risorgimento lì dove si poteva essere sudditi dell’imperatore Francesco Giuseppe, ma si voleva essere parte del regno d’Italia di Vittorio Emanuele III

Prima di entrare più a fondo in La guerra addosso, un’altra osservazione va fatta. Il suo autore, nonché in questo caso il suo recensore, appartengono entrambi alla generazione postbellica dell’immediato secondo dopoguerra, la prima che assaporò l’esaltante sensazione di non avere la guerra addosso, per usare l’immagine del titolo. La prima perché da allora, e per i settant’anni che le hanno fatto seguito, l’Italia è stata in pace e per quanto si sia, dal punto di vista anagrafico, un Paese di vecchi, la pattuglia degli over-novanta che ne possono conservare il ricordo infantile o adolescenziale è ormai sparuta e quella dei centenari un fuoco fatuo Lasciando da parte l’idea, che pure ha una sua fondatezza, che la guerra resta un’esperienza fondamentale nella storia di una Nazione e quindi di un popolo, ne deriva la constatazione della difficoltà a capire che cosa essa possa realmente significare, visto che la stragrande maggioranza di noi italiani non ne ha esperienza diretta. Intelligentemente Del Ninno osserva che se da un lato gli sono capitati fra le mani diversi oggetti familiari di carattere bellico, cito a caso, un moschetto-modello 91, completo di baionetta, una sciabola, un pugnale della Milizia, delle decorazioni al valore, «io e i miei coetanei non abbiamo da tramandare nulla di simile a quanto appena descritto: noi non abbiamo fatto la guerra, mentre nonni, padri e zii, sì. Così questo libro è nato pensando a due protagonisti collettivi che oggi, a differenza di ieri, non sono più in rapporti diretti: la Guerra e la Famiglia, con le rispettive costanti e con tutte le differenze contingenti; perché la guerra – e le famiglie – mutano nel tempo».

Particolare non secondario, quella di Del Ninno non è una famiglia di tradizioni militari e, nei suoi vari rami, rappresenta «uno spaccato sufficientemente ampio e diversificato della società italiana della prima metà del Novecento», lì dove radici meridionali si mischiano a radici tirolesi e liguro-romane. Allo stesso modo, l’estrazione è borghese-impiegatizia con punte che abbracciano l’imprenditoria agricola da un lato, quella edile pubblico-privata dall’altro, ma presentano anche traccia di emigrazione, fenomeno non secondario dell’epoca. Infine, in queste grandi guerre e piccole storie familiari, come recita il sottotitolo del libro, c’è chi va in guerra per il fascismo e chi va in guerra contro il fascismo, e qualche volta si tratta della stessa persona… Questo per dire che le letture manichee ex post non spiegano niente e confondono tutto, per non dire di quanto le ideologie o le fedi politiche risultino perdenti rispetto ai sentimenti, alle amicizie, ai casi stessi che la vita si diverte a metterci davanti.

Se dunque noi, ovvero la stragrande maggioranza degli italiani, non abbiamo esperienza della guerra, il racconto di chi quell’esperienza la conobbe in prima persona risulta tanto più interessante quanto fondamentale… Eppure, e qui si situa un altro degli snodi del libro di Del Ninno, singolarmente in controtendenza rispetto alla memorialistica e alla storiografia che nelle due guerre mondiali hanno pescato e continuano a pescare con grande ricchezza, il vero protagonista occulto del rapporto fra guerra e famiglia è «il silenzio», ovvero «la cortina di riservatezza che ognuno dei mie parenti e affini, pur così diversi fra loro per indole, origine, temperamenti, cammino esistenziale, ha steso sul proprio passato bellico». È un’osservazione importante ed è un’osservazione vera: da coetaneo dell’autore, e come lui curioso di saperne di più su quella che mi appariva straordinaria come esperienza di vita, anch’io ho potuto constatarla nella riluttanza a parlarne da parte di mio padre, dei miei zii, dei loro amici comuni che, ragazzo, avevo il piacere di trovare a pranzo o a cena a casa dei miei. Tutta gente che aveva fatto la guerra, da ufficiale, al fronte, o che la guerra l’aveva subita, da civile: i bombardamenti, il coprifuoco, la penuria alimentare, il mercato nero, ma che era ritrosa nel ricordarla, ritrosa soprattutto nei confronti dei bambini o dei ragazzi che ne avrebbero voluto saperne di più. Era una riservatezza che sarebbe meglio definire pudore, un qualcosa di indicibile e insieme un sentimento di protezione, un’esperienza troppo personale per poter essere condivisa con chi non ne sapeva nulla, e una volontà di preservare quest’ultimo da un qualcosa di troppo terribile anche solo nel ricordo. Ne parlavano, naturalmente, fra loro, cementati da un’esperienza che in tempo di pace era anche una sorta di mutua assistenza, indipendentemente dalle idee, dai percorsi individuali e professionali, dai voltafaccia della storia. Erano dei sopravvissuti che come tali si riconoscevano e si aiutavano fra loro. Il libro di Del Ninno è importante anche per questo, perché nel rimettere insieme con pazienza «brandelli di tradizione orale, ornamenti letterari, documenti», ci dà lo spaccato di una storia familiare che è appunto storia nazionale, un «come eravamo» sconosciuto ai suoi stessi protagonisti, allora perfettamente ignoti «del loro futuro e del momento in cui si sarebbe interrotto il loro cammino su questa terra».

Leave a comment

Your email address will not be published.