Se è vero che Jannik Sinner è stato premiato come il giocatore più cresciuto del 2023, non c`è dubbio che Mattia Arnaldi sia stato il ciclone dell`anno. Sotto quel cappellino c`è insomma una tennista che mischia talento e carattere per arrivare là dove nessuno se lo immaginava, tranne lui e il suo staff ovviamente: «Quando si comincia l`anno gli obbiettivi li ho sempre in testa. Posso dire che sono stati raggiunti».
E d`altronde: ingresso in Top 100 (da 131 a 44), il primo Top 10 sconfitto (Ruud a Madrid), i primi ottavi di uno Slam (contro Alcaraz a New York) e poi la Davis come eroe (quasi per caso).
Missione compiuta, Matteo.
«Beh sì, siamo arrivati dove volevamo essere…».
Qual è la cosa che ha più reso in quest`anno di lavoro?
«Tranne il periodo tra febbraio e marzo, ho giocato tante partite alzando sempre di più il livello. Questa è stata la chiave».
Per far questo ci vuole più talento o più sacrificio?
«Se non hai talento è difficile, però ci vuole testa per stare tutti i giorni sul tennis. E serve allenamento: è un insieme di cose e se ne manca una non arrivi».
Voi tennisti giocate al singolare ma parlate al plurale.
«Siamo un team: è importante avere persone intorno che lavorano con e per te, e che ti vogliono bene. Anche per gestire le tante trasferte in maniera più serena».
Cosa fate nei tempi morti?
«Siamo giovani e ci piace fare cose insieme, tipo mangiar fuori o girare: non è solo un rapporto atleta-coach o atleta-preparatore. Sinner gioca a carte? Noi preferiamo la spiaggia…».
A 16 anni parti da solo per la Georgia senza una parola di inglese. E…
«Non avevo soldi per poter girare con il coach, e così mi dovevo arrangiare. Questo mi ha aiutato a crescere, ad affrontare tanti problemi da solo e adesso questo fa la differenza. E sì, quella volta ho vinto il torneo».
Una lezione di vita…
«Ero un caso a parte: a quell`età c`è chi ha già lo sponsor, e comunque la federazione sta aiutando molto i nuovi talenti».
Qual è la cosa più assurda che ti è capitata?
«Dopo la Georgia andai in Grecia, sempre da solo, perdendo in finale dopo essere stato male in campo per una congestione. Non c`era il medico e ho dovuto far da me, anche perché avevo il volo di ritorno alle 4 del mattino».
E i campi com`erano?
«Ah, strani. Ma non erano la cosa più strana che ho trovato…».
Da lì sei arrivato a entrare nel mito: una Coppa Davis a 22 anni, titolare un po` per caso.
«In realtà in finale sapevo che avrei giocato, ero preparato. L`esperienza di Bologna mi aveva aiutato molto, e anche se ho perso la prima partita, era tutto programmato a farci stare bene».
Com`è giocare per la squadra?
«Divertente, dài e ricevi consigli da giocatori che di solito sono avversari. Una cosa diversa che mi è piaciuta».
Domanda amletica: un tennista impara più a vincere o perdere?
«Mi viene da dire entrambe le cose. In fondo si finisce per perdere quasi tutte le settimane, e quindi impari tanto per forza. Però anche vincere ti dà quell’esperienza in più che poi ti aiuta nella sfida successiva».
E quando batti un avversario, gli stringi la mano e gli dici «mi dispiace»: ma davvero?
«Massì, insomma, beh, dipende: un po` sì e un po` no. Se batti un altro italiano ti dispiace. Però anche in finale di Davis ero un po` triste per Popyrin: ha giocato nettamente meglio di me. Ma io ero contento, eh…».
Un rimonta incredibile. Il segreto è davvero giocare punto per punto, come dite tutti?
«La storia del tennis racconta di partite che sono girate in modo pazzesco. E quindi sì, può sempre succedere qualcosa che fa cambiare il match».
Discorso da mental coach.
«Io sono un po` particolare: non ho né quello, né il fisioterapista. Ho solo coach e preparatore: per ora mi basta. Magari poi cambierò idea».
Arriva il 2024: che cosa ci dobbiamo aspettare?
«Il mio forte è il fisico: mi piace la lotta e quando le partite si allungano ho sempre buone possibilità. Cosa migliorare? Tante cose, su tutte sicuramente il servizio. Ci stiamo lavorando».
E ci sono gli obbiettivi.
«Quelli meglio non dichiararli prima. Diciamo che gioco il mio primo tabellone in Australia, parto bene».
Ma almeno uno?
«La stagione è lunga, e chi sta in alto nel ranking è più avvantaggiato perché può fare meno tornei, mentre chi è indietro è costretto a giocare sempre per guadagnare punti. Ecco: vorrei poter riposare, ogni tanto».