È stato anche El Chicle, la cicca, la gomma da masticare, per la sua dote di tenere il pallone sempre attaccato ai piedi. Un soprannome che si conquistò per una classe innata, che la grande Saeta Rubia o Don Alfredo Di Stefano gli riconobbe fin da subito. Anche se poi Ferenc Puskas è stato tante altre cose assieme, anche molto di più di un simbolo del calcio magiaro e non solo.
È stato per alcuni Ocsi, il fratellino, poi Il colonnello, il Maggiore galoppante, ma anche il Pancho e il Cañoncito Pum Pum, oltre che essere stato uno dei più grandi giocatori della storia del calcio, il capitano della Honved e della Aranycsapat, la squadra d’oro dell’Ungheria che seppe vincere l’oro olimpico a Helsinki del 1952.
Quella raccontata da Claudio Minoliti nel suo Ferenc Puskàs, il campione dei due mondi (edizioni Minerva, 18 euro) è la storia di un campione che è stato testimone di un altro tempo e simbolo di una nazione che voleva essere nazione. Capitano di «una squadra in fuga. Ma non per la vittoria», scrive Minoliti.
È la storia di un uomo diventato esempio di un Paese e nemico giurato dell’establishment magiaro. Per questo fu squalificato e non solo lui.
Quello di Minoliti è un libro che invita alla lettura, ad approfondire storie lontane. È un condensato di fatti e ritagli di giornali, citazioni e annotazioni, documenti e pensieri.
Un libro da leggere, per conoscere un calciatore fenomenale, mai troppo raccontato, sempre troppo poco conosciuto.
Un libro fatto per conoscere un mondo andato e una storia che merita di essere fermata: nelle nostre menti. Nel nostro cuore.